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Notte, giorno; alba

Notte, giorno; alba.

Si era alzato alle 5. Anzi, alle 5:05, per quella fissazione dei numeri dispari e per le simmetrie. Per lo stesso motivo aveva provato ad alzarsi alle 5:05:05, cinque cifre, senza mai esserci riuscito. Svegliarsi, dopotutto, richiedeva ben più di cinque secondi.

L’importante, però, era arrivare alla metropolitana in cinquanta minuti, per l’orario magico e maledetto delle 5:55:55, quello che le persone normali chiamano “quasi le sei”, e gli assonnati chiamano “comunque troppo presto”.

Quel giorno era stato fortunato. Era l’unico a scendere dalla scala mobile a quell’orario solitamente già animato.

Scendeva, felice ed elettrizzato, trasportato dal tempo; arrivato a metà percorso, però, dovette ammettere di sentirsi un po’ stupido.

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Fotografica Racconti

Sono sempre stato attratto dalle scale


Sono sempre stato attratto dalle scale. Dalle gradinate. Di marmo, antiche, magnifiche e infinite.

Quando ero bambino sognavo spesso lunghe rampe, che arrivavano al cielo; medie, che raggiungevano cime di montagne secondarie; scale più modeste arrivavano semplicemente alla porta di casa mia.

Tutte erano inclinate, più o meno ripide, e davano vertigine e senso di smarrimento.

Ma c’era anche una scala speciale; era verticale, ogni gradino era esattamente sopra l’altro. Sembra impossibile. E’ impossibile. Eppure, arrampicandomi a perdifiato ma senza fatica su quella scala varcavo, mondi incredibili, mi allontanavo fino a miliardi di anni luce, dimenticavo che ero un bambino, anzi un essere umano, e persino che venivo dalla Terra.

In effetti non era infinita, no. Aveva un termine. Alla sua sommità trovavo un tetto, una conclusione. Un punto. Un tetto. La fine del cielo e dell’universo era un tetto.

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Fotografica

Lo so. Lo so. Lo so.

Lo so. Lo so. Lo so, adesso si avvicina e mi fotografa. Anzi, lo fotografa. Il gatto, non me. E scommetto che la sua stupida foto avrà anche un titolo che più o meno ruffianamente allude al gatto, o ala gatta, o ai gatti, o alla gattosità, o a qualunque mostruosità lessicale cominci per “gatt-“. Tutto fuorché a me.

Per lui, il primo piano di una foto non è il punto principale, no, lui cerca l’effetto sorpresa, cerca il sofisma visivo, anzi l’arguzia grafica; vuole fare il fotografo superbo, quello che “il soggetto non è niente, è il fotografo che si rivela nella foto…”. Barocco e puerile. L’allusione, l’intenzione… Lo conosco troppo bene.

Ed è altresì chiaro che il suo non meno di lui fanatico pubblico, guardando questa foto, esulterà come se fosse tutto composto da ragazzine adolescenti, in delirio alla vista di ogni animale, in proporzione diretta al numero di peli e inversa alla dimensione.

Ma io rivendico la mia esistenza, e affermo: la foto non raffigura un gatto se non come disturbo grafico.

Raffigura me: la Zampa.

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Mi hai chiamato, mi hai cercato?


Mi hai chiamato, mi hai cercato? Primavera, nuova, ti ho aspettato a lungo. Davvero sei arrivata?

Mi hanno messo in un vaso, piedi stretti, testa che cerca l’aria; qualcuno avrebbe detto “punizione”, ma in realtà è stata una liberazione dal freddo che mi sembrava quasi inflitto, come se Dicembre si volesse vendicare su di me delle piogge infinite di Novembre.

Adesso raggi gialli, raggi bianchi, riflesso di finestre vicine e oblique, sguardi di anziani che curiosano in casa, tutto mi rinnova. Primavera, sei proprio tu, vero?

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Ho portato, trasportato, deportato


Ho portato, trasportato, deportato. Ho importato, esportato. Ho aspettato, ho affrettato. Ho cercato strade, e non ho trovato strade.

Stazione, riposo, pioggia, sosta. E le persone, come pelle morta, finalmente si staccano da me.

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Non volevo guardarlo

Non volevo guardarlo, decisamente non volevo: era un orizzonte frastagliato, senza logica, senza rigore. E io invece amavo proprio la logica e il rigore.

Sapevo che guardare, prima ancora che vedere, voleva dire essersi convinto della possibilità di guardare, aver ammesso l’esistenza dell’oggetto; e in definitiva, per quanto collaterale, del soggetto.

Appunto, non era il mondo esterno che mi infastidiva, quello poteva benissimo esistere, e persino senza chiedermi il permesso.

Quello che non mi rassegnavo ad accettare che esistesse, nonostante la logica lo negasse, ero io. Io esistevo. Troppo tardi.