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La scoperta del mare

La prima volta che Nsue vide il mare, pioveva.

Aveva cinque anni e mezzo, e suo zio Akuete gliene aveva parlato spesso, descrivendolo al bambino curioso come una specie di cielo ribaltato e liquido, dove gli alberi non avevano tronco, ma solo lunghe foglie, gli uccelli non avevano ali, e allora anche persone potevano volare. Suo zio raccontava storie di pesci enormi, viaggi pericolosi e tempeste e barche naufragate; voleva fare bella figura, si vantava tanto che sembrava l’avesse scoperto lui per primo.

Nsue non era sicuro se credere o no a quei racconti così appassionati, ma nel dubbio il desiderio di vedere il mare si rafforzava ad ogni nuova storia che ascoltava.

Nsue abitava in un villaggio a pochi chilometri da Kukumancoc, e come tutti i bambini della sua età, non aveva mai visto il mare. Lui però, diversamente dagli altri, aveva la fortuna di essere il nipote di Akuete, che invece lo vedeva spesso.

Quando lo zio tornava dopo le sue periodiche assenze di quasi due settimane, la prima cosa che Nsue faceva era proprio chiedergli di raccontargli qualcosa di nuovo, come se da un mese all’altro l’oceano potesse prosciugarsi e scomparire, o magari decidere di spingersi fino a Kukumancoc solo per farsi ammirare, e poi tornare indietro.

Per quanto assurdo, Nsue in fondo sperava proprio che un giorno, in un modo o nell’altro, la superiorità che gli veniva dal conoscere tante cose rispetto ai suoi coetanei venisse confermata da qualcosa di innegabile e definitivo, se non addirittura dal mare in persona, che venisse a mostrarsi per dargli ragione davanti a tutti.

Nell’attesa di questo improbabile evento, Nsue si preparava da tempo a vederlo un giorno nella sua sede naturale, la spiaggia di Bata.

Finalmente, un giorno lo zio, tornato insolitamente in anticipo da uno dei suoi soliti viaggi, lo chiamò e gli disse: “Domani andiamo a vedere il mare”. Sapeva che l’avrebbe fatto felice, e appunto per questo non volle aggiungere altro; poi sparì nella sua stanza e andò a smontare il bagaglio che aveva con sé e a preparare il nuovo.

Anche Nsue voleva preparare il suo, ma non sapendo cosa portare, prese solo l’oggetto più intrepido che possedesse, un cappellino di stoffa con la visiera di plastica iridescente.

I viaggi di Akuete erano molto regolari: ogni due settimane scompariva a piedi dal villaggio, e ricompariva dopo dieci giorni, sempre a piedi, ma con la barba molto più lunga e carico di oggetti.

La camminata durava fino a Kukumancoc, poi il viaggio proseguiva fino a Niefang su una corriera degli anni ‘80, poi su un’altra corriera, meno vecchia, fino al centro di Bata, e poi di nuovo a piedi al porto. Saliva sulla Encelada, la barca di suo fratello Mitoha, il pescatore-postino, che sfiorando tutta la costa, all’unico prezzo di due birre lo portava a Mbini. Da là saliva su un’altra corriera fino ad Acalayong. Il viaggio era spossante, e sulla strada non si vedeva altro che giungla e polvere: poco prima dell’arrivo, solo la vista sulla maestosa foce del Rio Mitemele poteva ripagare tutta la fatica e la sete accumulate in otto ore di sobbalzi.

Attraversava lo stretto sulle piroghe di Francisco Myone, che poi lo ospitava in uno stanzone lurido della sua casa di Kogo, insieme ai viaggiatori che l’indomani sarebbero ripartiti verso nord.

Una volta svegliato, Akuete cercava il traghettatore Obiang, e lo trovava sempre mentre mezzo addormentato ma ancora all’erta dentro il suo gommone giallo: aveva paura dei ladri e dei gabonesi; finalmente in sole tre ore di acqua salata negli occhi, puzza di nafta, e insipide barzellette sui gabonesi, giungeva all’isola di Corisco.

A Corisco restava una settimana, e la passava a cucinare per gli americani e gli europei che si davano il cambio per misurare e rimisurare il terreno dell’isola. Cercavano il petrolio, ma le trivellazioni non iniziavano mai, perché ogni mese arrivava un esperto più esperto di quello del mese precedente, che chiedeva sempre nuove rilevazioni e se ne andava senza avere concluso niente.

Cucinare per loro era facile e rendeva bene, e ogni volta si imparavano due o tre nuove parole di inglese, buone per darsi arie di giramondo con gli amici a Mbini e a Bata.

Il viaggio di ritorno a casa durava un giorno in più, che serviva per comprare con i soldi nuovi quello che serviva al villaggio. Akuete si fermava nei vari mercati lungo tutta la strada, a contrattare e scambiare continuamente dollari, pesce fresco, franchi, pane, bottiglie di plastica e scarpe da tennis importate.

La sera dei decimi giorni, proprio quando al villaggio le donne iniziavano a cucinare insieme, Akuete tornava, e prima ancora di rientrare a casa distribuiva loro le spezie e gli oggetti che gli erano stati commissionati prima del viaggio; solo allora poteva cercare Nsue, regalargli minuscoli giochini o portachiavi di metallo che gli avevano lasciato gli americani, e raccontargli per l’ennesima volta del mare e di come quella volta si era comportato con lui.

Veramente quell’ultima volta il mare si era comportato male, scuotendo più del solito il gommone di Obiang; e anche tutto il resto era andato abbastanza storto, perché una tempesta si era abbattuta su Corisco, anticipando di molto il ritorno dei tecnici Spagnoli e Inglesi, così che anche lui era dovuto tornare prima.

Non avendo altro da fare ancora per alcuni giorni, Akuete pensò di a fare un regalo a Nsue: l’indomani lo avrebbe portato a vedere il mare, a Bata, a poche ore dal villaggio. Avrebbero passato la giornata a pescare con suo fratello, per guadagnarci quaranta franchi e magari rivendere al villaggio qualche pesce fresco per la cena.

Così, l’indomani mattina, prima che il sole fosse troppo caldo, Nsue e lo zio si incamminarono a passi svelti verso il paese.

Nsue era stato diverse volte a Kukumancoc, e di solito non faceva più caso neanche alle profonde buche della strada, ma stavolta era diverso, e cercava di fare attenzione ad ogni albero, a ogni persona che incontrava, per ricordarsene un giorno; e gli sembrava che tutti gli adulti che incontrava sapessero segretamente del viaggio importante di quel giorno, e gli mandassero chi degli sguardi di complicità e approvazione, chi di sfida, come a dire: “non vedi che sei troppo piccolo per camminare fino al mare?”

E in effetti, Nsue sapeva bene che era troppo piccolo, e non aveva idea di dove fosse davvero, il mare. Sapeva che bisognava attraversare foreste e foreste, fiumi, ancora foreste, villaggi sconosciuti e troppo grandi, ma questo era soltanto il quello che ricordava dei racconti dello zio Akuete; e dopo diverse ore di strada in mezzo a distese sconfinate di alberi, cominciava a preoccuparsi e a perdere la fiducia nello zio.

Man mano che procedevano sulle corriere rumorose, i nomi dei paesi diventavano sempre meno familiari: Akoga, Evinayong e persino Niefang gli sembravano conosciuti, ma quando sentì i passeggeri vicino a lui lamentarsi che erano in ritardo per il mercato di Machinda, cominciò davvero a temere di essere finito chissà dove. L’entusiasmo di poche ore prima gli sembrava restare impigliato tra i rami degli alberi che a tratti sfioravano il vetro della corriera. E, per giunta, lo zio seduto accanto a lui si era addormentato!

A Machinda, la corriera dovette fermarsi più a lungo del solito, perché come temuto era arrivata in ritardo per il mercato, e otto passeggeri piuttosto anziani si lamentavano con l’autista dandogliene tutte la colpa; lui invece, si difendeva, non aveva colpa di niente, la corriera era del suo padrone, e se lui, per fare presto, avesse avuto un incidente, avrebbe dovuto rimborsare tutti i danni con i suoi soldi. Era giovane, la sua pelle nerissima era lucida di sudore, ma più per la paura di perdere i clienti abituali del suo padrone che per il calore, che pure era soffocante.

Anche Nsue cominciava a soffrire il caldo. Era quel caldo umido e minaccioso di inizio estate, quando il vento sibila come i serpenti velenosi, e annuncia la pioggia e la tempesta a chi sa decifrare il suo linguaggio senza suono. Gli anziani avevano capito che la pioggia sarebbe arrivata entro poco tempo, e se la prendevano con l’autista come se anche la pioggia fosse colpa sua e della sua corriera vecchia di trent’anni.

Il rumore dei battibecchi svegliò Akuete. Vedendo lo zio sveglio, Nsue gli chiese con apprensione dove fossero. Questa ulteriore attesa innervosiva il bambino, che pur rassicurato che mancassero solo pochi chilometri al mare, vedeva il cielo sempre meno incoraggiante, e risentiva del nervosismo delle persone attorno a lui.

Al rinforzare del vento, i venditori del mercato cominciavano raccogliere le stuoie, la frutta e i pesci salati, prima che la polvere e l’umidità li rovinassero completamente. Mitobo Nzang, il venditore ambulante di scarpe più conosciuto del Litoràl, si limitò a coprire la sua mercanzia con uno spesso sacco di plastica trasparente. Si vantava che i suoi clienti arrivassero persino dalla provincia del Wele-Nzas, e, che fosse vero o no, nessuno lo avrebbe smosso da là fino al passaggio della corriera che da Mongomo portava a Bata.

La corriera di Nsue ripartì esattamente all’arrivo delle prime gocce di pioggia, come se quello fosse un segnale di lasciapassare. Anche gli anziani, ormai rassegnati, erano scesi e si erano radunati dall’altro lato della piazza. Avrebbero aspettato la stessa corriera per il viaggio di ritorno: il giovane autista intuiva già come avrebbe passato le ore seguenti!

La pioggia ora sembrava scendere più consapevolmente, forse voleva davvero rovinare la festa a Nsue. Nell’ultimo tratto di strada, che usciva dalla foresta e scendeva lentamente fino a Bata, Nsue quasi non vedeva più i bordi della strada, ma sentiva solo il suono delle ruote che sprofondavano nelle pozzanghere e dei cani che abbaiavano al suo passaggio.

Bisognava ammettere la delusione. Già da quel punto, aveva detto lo zio, quando il cielo era limpido, il mare spuntava da dietro l’ultima curva come un’alba azzurra e verde, un bagliore fresco che riempiva la vista e portava l’odore del sale, ma quel giorno sembrava che il mare volesse nascondersi a Nsue, per avere osato cercarlo senza avere l’età sufficiente. Forse avevano ragione le persone che la mattina, al villaggio, lo avevano guardato male.

L’arrivo a Bata però era comunque spettacolare: dove prima la strada era un corridoio tortuoso tra la vegetazione, adesso le case cominciavano a essere sempre più numerose e belle, e piccole stradine laterali, seminascoste dagli alberi alti, lasciavano intravedere villaggi e poi quartieri che già da soli erano molto più grandi di Kukumancoc. E poi tante automobili, tante persone cariche di oggetti, manifesti di pubblicità, e negozi e colori; Nsue notava pochi bambini, forse a loro non interessava andare a vedere il mare; bambini di città, poveri ma viziati, la spiaggia a pochi metri e non volerne approfittare!

Intanto il tempo migliorava: ogni chilometro sembrava che stesse per tornare il sole, e di tanto in tanto uno spiraglio di cielo lasciava passare una luce più rassicurante.

Dentro la città, le case lasciavano spazio a veri palazzi, e al palazzo del governo e a quello della polizia, molto più grandi di quanto potesse immaginare; poi lo stadio.

La corriera si arrestò davanti allo stadio. La pioggia era quasi finita, e dal mare, che si trovava a due o tre strade di distanza, provenivano degli sbuffi che sapevano di sale. Nsue, era elettrizzato, era avvolto dall’odore e dal rumore dell’oceano, e li riconosceva pur senza mai averli sentiti prima: sarebbe scappato verso la spiaggia, senza neanche aspettare lo zio.

Invece Akuete si fermò prima a comprare i biglietti per il ritorno della sera, e a raccomandare all’autista di trattare bene gli otto anziani di Machinda; poi, trascinato da Nsue, accettò di farsi accompagnare verso la riva.

La pioggia non era più che qualche goccia sparsa, mentre il cielo ricominciava ad aprirsi, prima sull’orizzonte e poi sulla costa. Akuete si lasciava guidare dal nipote, attirato dal suono del vento che sfregava l’oceano. Dalla strada emergeva la linea ancora grigiastra dell’acqua, e fu quello il momento in cui Nsue cominciò a gridare, indicare, e strattonare, come se fosse lui l’esperto, e non lo zio.

Arrivarono alla riva proprio davanti all’Hotel Panafrica, dove la vista è la migliore di tutta Bata; il bambino era come assorbito dalla presenza di tutta quell’acqua: come nei racconti più incredibili dello zio, e si perdeva nel disegno delle onde, che cambiavano forma, che si avvicinavano come per assalirlo, e che all’ultimo momento si spegnevano sulla sabbia; perso nell’orizzonte, così piatto e diverso dall’orizzonte verde scuro e spigoloso del villaggio. Questo era blu, fluido, e a momenti sembrava infinitamente lontano, e un attimo dopo si avvicinava con la velocità delle onde più alte.

I colori cambiavano ogni istante, i raggi di sole che cominciavano ad uscire dalle ultime nuvole impertinenti aprivano il blu, il verde, l’azzurro, che trasformavano l’oceano ancora a tratti scuro in quel cielo coricato dei tanti racconti ascoltati al villaggio. Le onde si schiantavano sulla banchina davanti al Panafrica, mandando schizzi di schiuma e sale sui gabbiani e su Nsue; e lui toccava l’acqua leggera impigliata tra i capelli, l’assaggiava, e la trovava buonissima, ma poi storceva la bocca.

Akuete si godeva anche lui la vista del mare e del nipote, e il suo silenzio soddisfatto voleva far credere che tutto quello fosse quasi una sua creazione, un regalo speciale tutto per lui.

Dopo alcuni minuti di quella contemplazione, Akuete richiamò il bambino che era come incantato, e con lui seguì la costa verso nord, fino al piccolo porto dove avrebbero trovato suo fratello Mitoha. Purtroppo quello non era giorno di pesca ma di posta, così per tutto il pomeriggio i tre non fecero altro che attraversare a piedi la città da un lato all’altro, per consegnare pacchi e lettere a gente con nomi stranieri e uffici con guardiani insolenti: ne ricavarono molto fango sulle scarpe e nessuna mancia decente.

Ma per Nsue i momenti più belli erano quelli in cui dalla costa si rientrava verso le vie interne, dove il mare non si vedeva ma se ne ascoltava la voce; e come in un gioco a chi si nasconde meglio, ad ogni ritorno verso l’oceano scoppiava in un grido di sorpresa e di vittoria.

Al ritorno al villaggio Nsue aveva una certezza: tra tutti i bambini del suo villaggio l’aveva trovato per primo lui, il mare.