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Il piccolo ristorante ambulante di Bei Xidong

Il piccolo ristorante ambulante di Bei Xidong non era altro che un lungo ripiano di legno che al momento del pranzo veniva estratto dal rimorchio della bicicletta. E il rimorchio era un semplice cassone, ma senza rincalzi e perfettamente piatto, come un letto di obitorio con le ruote.

Ogni giorno, il signor Bei alla guida del suo ristorante faceva la ronda dei cantieri più affollati di Chanxi, rincorrendo le pause degli operai: al nuovo stadio di calcio la pausa per il pranzo era alle 11.30; al centro d’affari Perla D’Oriente, alle 12.00, al centro commerciale del Drago e della Fenice, alle 12.20; c’era anche la pausa per la cena, e quella per la prima colazione, e lui riusciva a non mancarne neanche una.

Al momento di montare il suo ristorante, il signor Bei bloccava la bici con il freno a mano, metteva due zeppe alle ruote del rimorchio e tirava verso fuori l’asse di legno in modo tale che questo sporgesse dal lato posteriore, come una specie di rigido trampolino da tuffi, ma alto da terra solo sessanta centimetri. Sul cassone disponeva pentole, zuppiere, spezie, polpette di carne e bottiglie d’acqua e birra; sul trampolino le pietanze per i suoi clienti, a formare una tavolata sufficiente per almeno sei persone. Poi sistemava alcuni sgabelli di plastica tutto attorno, e in meno di un minuto il ristorante era già in servizio.

Il ristorante di Bei era ben accolto dovunque: la qualità dei suoi piatti era molto alta, rispetto a quella dei venditori di insipidi liangfen, youtiao, o zongzi; inoltre il menu variava ogni giorno, così in tanti si avvicinavano anche solo a dare uno sguardo. La curiosità era la migliore alleata di Bei, anche perché la maggior parte dei suoi clienti erano dei semplici operai, che ogni giorno mangiavano le stesse due pietanze, una di Chanxi, e una della provincia di partenza; e per loro vedere piatti nuovi e sentire profumi nuovi era già una discreta tentazione.

Il signor Bei conosceva perfettamente gli orari di tutti i cantieri, anche di quelli che non si fermavano mai, come quello della linea 6 della metropolitana, che a mezzanotte in punto cambiava il turno. Di ogni cantiere, Bei conosceva anche la data di inizio dei lavoro, la data di fine, e ormai sapeva leggere tra i discorsi dei semplici manovali in quali zone, fra un anno, sarebbero sorti nuovi grattacieli, la nuova stazione, e il nuovo municipio. Ne sapeva di più degli investitori americani e di quelli del governo: e appena avesse accumulato un po’ di guadagni, avrebbe giocato in borsa, come il barbiere dietro casa, e sarebbe diventato ricco.

Intanto aveva pensato al ristorante. Ma quello, si diceva, era solo l’inizio.

L’idea gli era venuta pochi mesi prima, nel periodo delle grandi Olimpiadi di Pechino, quando i tuffatori cinesi avevano vinto abbastanza medaglie da fare inorgoglire persino la gente come lui, che veniva da una delle regioni più aride del Gansu, dove peraltro sapeva nuotare solo una persona ogni dieci famiglie.

Prima che gli venisse l’idea di aprire il ristorante vendeva soltanto bibite ghiacciate: aveva aggiunto alla bicicletta un baule di legno foderato di polistirolo e riempito di ghiaccio per proteggere le bottiglie dal calore estivo di Chanxi, che la sera era appiccicoso e penetrava dovunque.

Una sera di fine agosto stava aspettando l’arrivo dei saldatori al palazzo della Commissione Interministeriale; nella baracca del custode all’entrata del cantiere la televisione era accesa, e teneva compagnia alle due guardie del turno di notte che, invece di sorvegliare la strada, stavano accoccolate a fumare, completamente assorbite dalla trasmissione. Il custode dormiva sulla sedia da prima dell’arrivo dei due giovani: il cambio della guardia era avvenuto senza rumore, e d’altra parte lui non era il tipo che si interessasse a queste cerimonie.

Quella sera Bei era arrivato prima del solito davanti al cantiere, così, una volta posato ben in evidenza sulla strada il suo frigorifero artigianale, anche lui si era seduto a terra a guardare la televisione alle spalle dei due guardiani, che non lo avevano neanche sentito arrivare.

La trasmissione era interessante: le Olimpiadi si erano concluse da pochi giorni, e quello era un documentario sui trucchi segreti dei nuotatori cinesi per vincere le loro gare. Allenamenti quotidiani, amore per la Patria e per il Partito, e tanto yogurt Wadada. In effetti non era un documentario, ma una semplice pubblicità, però siccome il nome dello yogurt veniva detto sempre dopo il Partito, nessuno poteva pensare che ci fossero astuzia o secondi fini nel racconto delle imprese che tanto onore avevano dato alla nazione.

In questo documentario, la grande nuotatrice Guo Xingxing appariva raggiante, la pelle bagnata dall’acqua della piscina e chiara come lo yogurt. Camminava sul bordo della piscina e rispondeva alle domande del giornalista e dei fans, quando, guardando il trampolino vi trovava tanti vasetti di yogurt Wadada. Allora lei, dimenticando il giornalista, si sedeva sul bordo della piscina, le gambe in acqua, e con un movimento sensuale e fulmineo si inclinava verso il trampolino su quei deliziosi yogurt, pronti per essere mangiati con voluttà prima del tuffo finale.

L’immagine di Guo Xingxing che mangiava appoggiata al trampolino come se fosse il tavolo di un bar colpì molto il signor Bei. Dopo la scena del tuffo, i due guardiani del cantiere si scambiarono compiaciuti mormorii di apprezzamento sul fondoschiena della bella nuotatrice. Il signor Bei, senza far caso a loro, esprimeva sottovoce un forte entusiasmo con se stesso per l’idea che si stava formando. Solo allora i due guardiani si accorsero che dietro di loro c’era un uomo; sentendo le sue parole, gli sorridevano con sguardi di complicità maschile, convinti che anche lui stesse commentando le forme attraenti della ragazza.

Il termine della trasmissione coincideva con la campana del turno dei saldatori: dopo pochi minuti una decina di persone, riconoscendo Bei, cominciarono a chiedergli birra, suanmeitang, doujiang. Approfittando della sua poca concentrazione, molti di loro pagarono due bicchieri il prezzo di uno; l’indomani Fen Lei, che era reputato il più furbo, si era vantato coni suoi colleghi di avere bevuto tutto gratis, quando invece, tenuto d’occhio dal signor Bei, aveva dovuto pagare ancora prima di prendersi il suo bicchiere di baijiu.

L’idea del trampolino-tavola andava prendendo forma: il giorno dopo il signor Bei non andò a fare il solito giro dalle parti dell’autostrada sopraelevata, dove solo pochi operai sprecavano le ultime forze per scendere dai ponteggi, comprare da bere e risalire; ma comprò un rimorchio per la bici, un asse di legno bello liscio, e andò a cercare Meimei, una cugina di quindici anni che era la sola nella famiglia a conoscere i gusti estetici e culinari di moda quell’estate a Chanxi. Accompagnato da lei, poté comprare pentole, ciotole di alluminio, bacchette nuove, e sacchi e scatole di ingredienti.

Nel montare il ristorante, la parte più difficile era sistemare l’asse di legno in modo che, con la bici ferma, si potesse spostare per fare da tavolo, ma negli altri momenti non doveva sporgere dal cassone per non far raggiungere al suo veicolo la pericolosa lunghezza di tre metri: arrivati a quel punto, infatti, la polizia considerava ogni veicolo “da carichi pesanti”; e anche la tassa da pagare in quel caso era, a detta di tutti, piuttosto pesante. O almeno di questo era convinto il giovane Fu Bai, ex riciclatore di lattine, che per trasportare un carico particolarmente ricco aveva voluto allungare il suo carretto: fermato dalla polizia, nel dubbio tra pagare o scappare, preferì abbandonare carro e carico ai due agenti sbigottiti.

Per risparmiarsi questo genere di avventure, più interessanti da raccontare che da vivere, Bei riuscì a montare l’asse in modo da poterla estrarre e ritrarre come una lingua, facendola scivolare su dei binari di ferro.

Completata la costruzione di questo mezzo, montato con le sue mani e decorato da quelle di Meimei, il signor Bei era ancora a meno di metà del progetto. Mancava la scelta delle pietanze. Lui si intendeva solo di bevande, aveva due piatti preferiti, che del resto erano gli unici due che sapesse cucinare, così bisognava ricorrere a qualcuno per i suggerimenti e per la preparazione. Nello stretto hutong nel quale viveva le donne abbondavano e venivano da tutte le province, quelle piccanti, quelle dolci, quelle oleose, quelle esotiche, ma non ce n’era una che venisse da una provincia dove i piatti tipici fossero semplicemente buoni. Buoni non come quelli che sapeva cucinare lui, buoni come quelli che gli operai di tutti i cantieri avrebbero dovuto desiderare al solo sentirne il nome.

Dopo molto riflettere, si decise a dare in appalto la cucina a Suan Lian, la ragazza più raffinata del vicinato. Lei faceva la cameriera in un ristorantino francese del centro, e da quando era stata assunta aveva cominciato a disprezzare il cibo cinese. La luna all’estero è più rotonda che in Cina. Aveva imparato ad usare forchetta e coltello, e alle amiche che le chiedevano di insegnar loro come usarle rispondeva in modo evasivo, come se non volesse rivelare chissà quale segreto; come se maneggiare con abilità la forchetta rendesse una donna più nobile ed elegante, e lei voleva essere la più elegante del suo hutong. Le amiche se ne lamentavano: erano tutte invidiose, diceva lei. Ma in fondo lei aveva già avuto un fidanzato, tempo prima, mentre loro si stavano ancora perfezionando nell’arte rara di sedurre un uomo. E sapere mangiare all’occidentale poteva essere un vero asso nella manica di ogni giovane ragazza di Chanxi.

Il signor Bei andò a cercarla un pomeriggio di lunedì. Era il suo giorno di riposo. Nei ristoranti occidentali concedersi il lusso di un giorno di riposo non equivaleva a perdere i clienti di quel giorno, ma a guadagnare in reputazione per tutti gli altri. E siccome in Europa i ristoranti sono tutti chiusi di lunedì (almeno a quanto diceva il padrone), ogni lunedì Suan Lian restava a casa. Nessuno però riusciva a togliere a lei e alle sue colleghe la convinzione che quella fosse solo una scusa per pagarle un giorno in meno alla settimana. E per di più, sempre con la stessa scusa delle ancora più inverosimili perché insensate abitudini europee, il suo ristorante chiudeva, lasciandola ancora senza paga, anche a metà pomeriggio di tutti gli altri giorni. Di tanto in tanto Suan Lian si chiedeva se lavorare per un occidentale fosse poi questo grande privilegio che lei raccontava alle amiche.

La proposta di Bei era questa: lei, con la sua famosa esperienza di cucina cinese e inglese avrebbe scelto i piatti da cucinare; poi li avrebbe preparati per lui il lunedì e nelle pause pomeridiane.

Suan Lian per prima cosa precisò, leggermente risentita, che il suo ristorante non era inglese ma francese, per quanto queste sottigliezze fossero trascurabili per il signor Bei. Dopo, però, sembrò accettare. Solo che la sua arte non si vendeva a tempo: voleva anche dividere i guadagni.

Così iniziò ad escogitare menù buoni per cinesi e per occidentali, gli operai e i manager, i muratori e i banchieri, che il signor Bei avrebbe svelato quotidianamente al momento dell’arrivo al cantiere. Ogni giorno ci sarebbe stato un menu diverso, come nel suo ristorante francese, dove il piatto del giorno veniva creato in base al pesce più fresco o ai funghi appena raccolti, e persino all’umore del cuoco in capo.

Ogni giorno, recuperando gli avanzi di cucina del ristorante francese e facendo le spese del vicino mercato all’aperto, la signorina Suan riusciva a cucinare, nelle due ore di pausa pomeridiana, quattro o cinque piatti diversi, zuppe, doufu, carne, verdure, a volte persino pesce o qualche piccolo granchio che aveva provato a scappare dal cuoco, rifugiandosi tra i piatti da lavare della cucina. In un primo tempo, a dire il vero, questa avanguardistica fusione tra due cucine intercontinentali non aveva dato buoni risultati: il primo piatto che Suan Lian aveva immaginato non era altro che un banale zha doufu ma fatto con avanzi di formaggio al posto del doufu, e una mediocre imitazione d’olio d’oliva al posto della salsa di soia. Solo i peperoncini erano conformi al gusto cinese. Il numero giusto per ogni portata era 58, pronunciato come “mi arricchisco”. In questo modo, però, il piatto risultava anomalo per i cinesi e quasi mortale per gli occidentali. Il figlio del cuoco francese, Monet, di otto anni, chiamato così dalla madre per nostalgia delle colline della Normandia, era, a sua insaputa, l’assaggiatore clandestino delle sperimentazioni culinarie di Suan Lian. Per quanto ancora bambino, aveva già l’età giusta per rifiutare sdegnato ogni cibo che non fosse di suo assoluto gradimento; e il suo gusto era ancora abbastanza occidentale da potere garantire un responso affidabile.

Il signor Bei aveva assaggiato per primo questo nuovo piatto e aveva detto che, se non fosse stato per quell’appiccicoso olio verdastro, gli avrebbe ricordato il chou doufu fatto a mano da sua madre, il cui ortodosso cattivo odore era talmente celebre nella famiglia che qualcuno lo dava come uno dei buoni motivi che aveva spinto Bei ad andarsene definitivamente dal Gansu.

Ma siccome molti clienti cinesi del ristorante francese, la prima volta, davano gli stessi commenti della rinomata cucina del padre di Monet, Suan Lian si convinse che il piatto creato da lei fosse una specie di punto di bilanciamento ideale tra il gusto orientale e occidentale. Mentre, almeno fino a quella fase, era semplicemente un compromesso tra il coraggio gastronomico cinese e l’ostinata ricerca di esotismo francese. Ci volle tempo prima che Suan Lian e i suoi assaggiatori fossero sufficientemente convinti della commestibilità di tutti i piatti che riuscivano a superare questo test in tre fasi.

Una volta completato il repertorio, bisognava trovare i nomi dei piatti: per questo incarico fu scelto un consigliere speciale, Zhui Lihuai, un vicino di casa, ex-funzionario delle ferrovie. Il signor Zhui aveva lavorato per dieci anni nelle province estreme della Cina, quando i treni erano molto rari. Si occupava dell’organizzazione dei festival in onore del personale delle ferrovie: in definitiva il suo compito era conoscere tutte le storie cinesi antiche e moderne e fornire lo spunto per gli spettacoli di fine anno; adesso sfruttava le sue conoscenze scrivendo lunghe calligrafie d’acqua sporca davanti all’ingresso dello Hutong nella speranza di farsi fotografare da qualche turista occidentale. Appena convocato dal signor Bei, si mise subito a disposizione, pretendendo soltanto di scrivere personalmente e firmare a mano i fogli dei menu.

I nomi scelti prendevano spunto dalle famose Quattro Bellezze della mitologia classica cinese; l’idea era del signor Bei, e sarebbe servita a lasciare nel vago i clienti sugli effettivi ingredienti dei piatti, lasciando però che l’immaginazione andasse alle quattro donne leggendarie per la loro bellezza: Xi Shi, Bei Zhaojun, Diao Chan e Yang Guifei. La clientela di Bei era quasi esclusivamente maschile, e forse questo trucco avrebbe avuto un buon effetto sui suoi affari. Fu deciso di intestare ad ognuna di loro il menu di una intera giornata. Così il martedì era il giorno di Xi Shi, e ogni piatto alludeva a una parte del suo corpo, mani, capelli, occhi; il mercoledì era la giornata di Bei Zhaojun e dei suoi goielli, il giovedì di Diao Chan e delle sue ancelle, il venerdì di Yang Guifei e delle sue magiche virtù. Lunedì invece era logicamente il giorno di Chang’e, e i piatti a lei dedicati ricordavano le tappe della sua ascesa alla luna; il sabato, giorno tanto atteso, era dedicato al terribile Nezha, che per nascere ci aveva messo tre anni e mezzo.

La domenica fu riservata a He Qiong, l’unica donna tra gli Otto Immortali, forse perché almeno in teoria anche la domenica doveva essere un’eccezione, l’unico giorno di riposo nella settimana.

Fu ideato anche un pannello di legno, molto colorato, con una grande scritta “Ristorante di Bei Xidong – Piatti eccellenti da tutto il mondo conosciuto e sconosciuto”.

Era ormai la fine di settembre; le Olimpiadi erano terminate da più di un mese, e il lavoro nei centododici cantieri di Chanxi proseguiva con il solito passo. Ma stava per arrivare la festa della Repubblica, per una settimana tutti i lavori importanti sarebbero stati temporaneamente fermi e gli operai sarebbero spariti nei loro alloggi a prezzo ridotto; qualche fortunato forse avrebbe persino potuto raggiungere la moglie, o almeno la fidanzata: Bei pensava che fosse il momento ideale per gli ultimi preparativi.

Per correggere le dosi dei condimenti, scrivere altri piccoli manifesti decorativi convincenti e altisonanti e ridipingere la bicicletta, la piccola équipe impiegò ancora quattro giorni, durante i quali il lavoro si svolgeva tutto all’aperto, all’ombra del platano che proteggeva la casa di Suan Lian dal vento sabbioso del nord. Tutti i pensionati che fino a qualche giorno prima passavano il pomeriggio a giocare a carte o a majong cominciarono a spostarsi anche loro sotto il platano, anche se dal lato meno ombreggiato, e sembravano avere trovato un nuovo interesse provvisorio, le scommesse su quanto tempo potesse durare l’attività di Bei prima di essere bloccato dalla polizia o da un qualche concorrente meno fantasioso e più muscoloso. I pessimisti scommettevano su poche ore; i più ottimisti pensavano che Bei sarebbe durato anche una intera settimana, ma che sarebbe stato comunque sconfitto dalla graduale scomparsa dei suoi clienti, di sicuro avvelenati lentamente da quel cibo sospetto né cinese né giapponese. In realtà nessuno aveva mai parlato di cibo giapponese; i vicini di Suan Lian sapevano che lei lavorava in un ristorante straniero, senza però interessarsene troppo: ma il cibo degli invasori, che fossero giapponesi, francesi o americani, restava sempre un cibo sospetto.

Lunedì 6 ottobre, alle sei del mattino, il signor Bei uscì da casa, caricò il suo ristorante, e partì verso la zona nord, dove il lavoro iniziava alle sei e mezza. Per fare un test poteva tentare di vendere xiaochi, una colazione sostanziosa: a quell’ora anche gli operai non erano del tutto svegli, e avrebbero accettato con meno diffidenza del cibo nuovo.

Davanti al cancello lucente che copriva le fondamenta appena iniziate del Palazzo dei congressi, il signor Bei arrivò con la sua bici lucente, e la fermò. Poi lentamente estrasse il tavolo-trampolino, vi mise sopra sei piattini vuoti, sei ciotole vuote, diverse vaschette di spezie, e sistemò il cartello di legno dipinto dal signor Zhui. Le altre pentole e i contenitori di cibo caldo restavano sul cassone. Poi si sedette sul sellino liscio della bici, a guardare l’aria piena di polvere e nebbia; nonostante la totale assenza di pubblico, c’era una certa solennità nel suo portamento.

Per dieci minuti non passò nessuno. Anche il custode era in ritardo. Doveva tornare a lavoro alle sei, ma rientrava dal Ningxia col treno, e forse sarebbe stato meglio se non l’avesse preso, perché fu licenziato alle sette, ancora prima di salutare il capomastro.

Il primo cliente, ancora con gli occhi semichiusi, era un carpentiere proprio del Gansu. Si sedette sullo sgabello senza nemmeno notare il prodigio di un ristorante trasformabile a ruote, che fino a quel momento era lì solo per lui. Non parlava quasi mandarino e, fra il sonno e il malumore di iniziare una nuova settimana, si rivolse a Bei con uno stanco accento di Zhangye: “sifae”. Il signor Bei, come riconoscendo nell’apparizione di un compatriota un segno positivo per il suo nuovo lavoro, gli porse subito una ciotola di quella zuppetta salata di riso che altri due uomini, arrivati subito dopo, mandando occhiate di rimprovero al carpentiere, chiamarono invece “xifan”, insistendo molto sulla pronuncia corretta, come se quell’altro, dicendone male il nome, avesse potuto guastare anche la ricetta.

Anche loro due si sedettero al tavolo distrattamente: e al signor Bei questa mancanza di attenzione fece quasi piacere: almeno la stranezza della sua creazione non spaventava i clienti.

Invece delle verdure salate classiche, lo xifan di Bei conteneva olive di Provenza e pezzetti di sedano avanzati la sera prima da un’insalata del ristorante di Suan Lian. Il carpentiere sembrò sorpreso dal gusto leggermente diverso, ma pensò che forse era un’impressione dovuta al fatto di non avere lavato i denti da più di una settimana. Sorrise. Anche Bei, che lo osservava facendo finta di niente, sorrise. Gli altri due sorridevano meno, pensando a quanto stupido fosse il loro collega, che li aveva spinti ad ordinare uno xifan dal gusto sospetto. Un mal di pancia avrebbe significato non lavorare per un pomeriggio, o lavorare con metà forze. E sarebbe stata tutta colpa di quel demente del collega del Gansu.

Mentre i tre finivano di mangiare, cominciarono ad arrivare diversi gruppi di muratori, saldatori e macchinisti, molto più svegli e di umore migliore; loro non erano rientrati a casa per la festa, avevano risparmiato soldi ed energie, a parte qualche serata passata tra karaoke e bordelli. Loro conoscevano il signor Bei, e vedendo il suo nuovo ristorante gli fecero dei complimenti di augurio tra il lusinghiero e l’invidioso, riempiendo d’orgoglio il piccolo padrone. Loro, diversamente dai tre addormentati di prima, notarono il tavolo allungabile, il menu scritto elegantemente, la varietà e il nome dei piatti; consideravano tutto questo troppo intelligente per essere stato creato dal solo Bei, e cominciarono a chiedergli metà scherzando metà seriamente se lavorasse per un investitore straniero.

La prima giornata era andata abbastanza bene. Gli spaghetti di soia alle acciughe mediterranee, chiamate “Il canto di Chang’e” finirono prima di mezzogiorno. E anche i panini al vapore ripieni di carne di maiale e mozzarella da pizza ebbero una buona accoglienza.

Bei, esauriti i piatti, tornò a casa più presto del solito. Ma prima passò a salutare la signorina Suan al ristorante francese. Lei lo aspettava. Anche se veramente aspettava ancora di più i risultati di quella giornata. Uscì ad incontrarlo con l’uniforme del ristorante, in vero stile europeo, composta e sobria. Mentre scendeva gli scalini del retrobottega, cercava già nello sguardo di Bei le tracce di successo o di insuccesso. Al secondo gradino intravide un cenno di complicità di Bei, e al terzo stava già provando a calcolare la sua percentuale di guadagno. Stava per salutarlo, ma prima ancora di aprire bocca fu richiamata dentro. Bei ebbe solo il tempo di dire la frase: “Tutto venduto”, e di vederla sparire subito dopo, senza risposta. Rimase ad aspettarla, e si ripeteva il suo “Tutto venduto”, cercando di capire se era riuscito a farle sentire che la sua frase era più un complimento che un resoconto commerciale. Si rese conto che da come l’aveva detta la prima volta non c’era indizio di complimenti, e si ripromise di dirla meglio appena lei sarebbe tornata.

Quando Suan uscì nuovamente fuori, Bei aveva ridetto la sua frase almeno dieci volte, l’aveva provata, aggiustata e perfezionata, e si preparava infine ad una esecuzione più convincente. Invece Suan, guardando il rimorchio vuoto, gli chiese subito: “E quanto abbiamo guadagnato?”, azzerando in un istante con quel “noi” le loro differenze di merito, di fatica e di percentuale.

Era tornato dal suo primo giro molto soddisfatto. Rispetto a quando vendeva bibite fredde aveva guadagnato almeno il doppio, aveva faticato meno, e soprattutto immaginava che il suo nome e la sua reputazione sarebbero certamente ancora migliorati. E poi, se le cose continuavano così, poteva cominciare a vantarsi con i suoi clienti di conoscere e frequentare una ragazza.

Il secondo giorno andò meno bene del primo; forse gli avanzi del ristorante non erano abbastanza invitanti, o forse eramo quei giorni di ottobre faticosi perché non c’è nessun buon motivo per lamentarsi e prendersela con il tempo, con il collega, o con quel vigile che ogni giorno ferma il semaforo quando stai per arrivare. Ma se non c’è motivo per lamentarsi non c’è neanche bisogno di consolarsi mangiando bene. Alla fine del giro, che era durato un poco più a lungo, il signor Bei andò di nuovo a trovare la signorina Suan. Questa volta non aveva frasi galanti da perfezionare. Si scambiarono due occhiate veloci, un po’ di danaro ancora caldo delle tasche di Bei, e si diedero appuntamento la sera, per cucinare insieme.

I primi giorni sono duri, si dicevano, e poi la cucina è troppo nuova; ma si abitueranno.

Oggi ho venduto quasi tutto: gli zongzi alla menta sono finiti per primi; dobbiamo rifarli.

Oggi ho conosciuto il segretario del sindaco: mi ha chiesto se avevo l’autorizzazione e poi si è seduto a mangiare da me.

Oggi mi hanno presentato il capo del cantiere della piscina, è un francese, conosce il tuo ristorante. È a Chanxi da due anni, parla cinese benissimo. Sa chiedere come ti chiami. Il suo interprete mi ha detto che sa anche chiedere che ore sono, ma io non l’ho sentito.

Oggi al ristorante è venuto quel francese del tuo cantiere, ha detto che ti conosce.

Oggi ho incontrato il francese, mi ha portato i suoi amici. Ha detto che non aveva mai visto una bicicletta ristorante.

Oggi il francese è venuto con un amico francese, un giornalista. Mi hanno fatto un’intervista. Peccato, avevo la maglietta sporca.

Passati tre mesi, poco prima della Festa di Primavera, il signor Bei era una piccola celebrità a Chanxi. Aveva cominciato a correre meno tra i cantieri e a fermarsi di più, all’ora di pranzo e di cena, vicino alla Piazza del Popolo, sul Corso della Liberazione. In quella zona i turisti erano più numerosi, e si avvicinavano per farsi delle foto con lui, mangiando le sue specialità, e trovandole relativamente mangiabili, visto che costavano poco.

Durante i giorni della Festa, con i cantieri del tutto chiusi, il signor Bei, chiese alla signorina Suan di prendersi tre giorni di permesso e di cucinare con lui, accanto al ristorante. Erano giorni di grande movimento, tanti cinesi andavano a Chanxi a passare le vacanze, e molti occidentali sazi di Shanghai e Pechino cominciavano anche a esplorare le Colline della Fenice e le sorgenti dell’Acqua dei Diecimila Anni. Due giorni a Chanxi bastavano per vedere tutto. Ma quando erano in città volevano vedere il ristorante ambulante di cui si parlava anche nell’ultima edizione della guida Lonely Planet.

Bei era sorpreso di essere diventato famoso. Aveva saputo che a Jianbo un ragazzo di sedici anni aveva imitato il suo ristorante: se avesse conosciuto un avvocato lo avrebbe denunciato. Con il passare dei mesi il ristorante cominciava a essere sempre meno ambulante, e alla fine di aprile ormai aveva trovato un posto fisso vicino alla via pedonale sul Corso della Liberazione. La signorina Suan quasi ogni giorno lavorava con lui, e aveva iniziato a comprare ingredienti freschi invece di recuperarli dai piatti sporchi del ristorante francese. Lei era giovane, aveva ventidue anni, e gli stranieri le facevano i complimenti a gesti, e i ragazzi occidentali le facevano delle foto quando Bei non li guardava.

Bei sperava di potere lavorare ogni giorno con Suan prima che arrivasse la Festa Nazionale. Un giorno, prima di rientrare, la chiamò affettuosamente con il suo nome, A Lian. Non aveva fatto attenzione quella “A”, che forse era un po’ troppo audace: l’ultima volta che aveva chiamato così una ragazza, aveva preso uno schiaffo; A Lian, invece, gli sorrise, ma di un sorriso che non era una risposta a quello timido di Bei.

Lei stava iniziando a pensare ad aprire un vero ristorante: lei cuoca stabile, la cugina Meimei cameriera. Almeno avrebbe smesso di essere lei, la cameriera.

Suan aveva ragione, le sue amiche sono tutte invidiose.

Fei Hanqi, che era la sua confidente, e l’unica ad aver avuto rivelato il segreto per tenere il coltello e la forchetta, ieri l’ha incontrata, e non l’ha salutata. Si è offesa perché non è stata invitata al matrimonio. Non tanto per vedere l’amica, ma almeno per conoscere dei ragazzi nuovi.

Ma Fuhuo, sua ex-collega al ristorante francese, da quando Lian se ne è andata deve fare da sola anche il suo lavoro. E sopportare le lamentele del capo francese, che accusa Lian di avergli rubato la cucina. Come se fosse lei, la ladra.

An Chao, che andava sempre con Lian a cercare vestiti usati, ha un amico giornalista, e ha saputo da lui del nuovo ristorante. In un suo articolo c’era la foto dell’inaugurazione. Non era stata chiamata, e allora lei non andrà mai al ristorante di Lian. E pazienza se non potrà vedere i tre saloni, quello cinese, quello francese, e quello della nuova cucina inventata dall’ex amica e da quello straccione di Bei.