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Il senso del viaggio

Il senso del viaggio

(陈绮贞:旅行的意义)

Seduto sul gradino più alto del vagone, con un piede poggiato sul marciapiede del tutto vuoto e l’altro sospeso e dondolante sotto il treno, Serge guardava verso i binari lucidi e le traversine di legno irregolari e nere. I movimenti ondulanti del suo piede coprivano e scoprivano sigarette mezze consumate, bicchieri di plastica schiacciati, fili d’erba anneriti da grasso, olio e liquami mescolati, e alcuni fiori grigi e piccolissimi, intimiditi dal treno sovrastante, abituati a essere guardati distrattamente e senza nessuna considerazione.

Un vento irregolare e importuno faceva cigolare l’insegna con il nome della stazione, e quel rumore metallico e intermittente si spargeva distratto nell’aria.

Serge seguiva distrattamente il movimento del suo piede, che barcollava nell’aria in cerchi deformati, come quelli che forma una farfalla la notte attorno a una lampada; e anche lui non pensava a niente, assorto in quel movimento controllato e ritmico ma senza significato. Era più di un’ora che il suo treno era fermo a Kamyshlov. Quando lui fino a un’ora prima non sapeva quasi neanche che esistesse, Kamyshlov. Erano le quattro e trentasette del mattino. O almeno questa era l’opinione di un orologio a muro dal vetro convesso e le lancette pesanti e spigolose, vecchio di più di vent’anni, che sembrava dare ancora l’ora di Mosca, come se in quel posto dimenticato, sugli orari dei treni notturni valessero ancora le vecchie regole sovietiche.

Era dalle tre e mezza che il treno si era fermato, apparentemente senza motivo, in una stazione che di solito non veniva neanche nominata; i passeggeri tutte le altre volte dormivano, e non si accorgevano neanche delle luci delle città maggiori che si avvicinavano, si mostravano e poi si allontanavano. E questo era solo un borgo che appariva, per pochi attimi, solo nel dormiveglia di qualche passeggero troppo ubriaco per ricordarsene l’indomani.

Invece, questa volta, il treno, trovandosi solo in una nebbia opaca e insignificante, senza una vera ragione, o forse solo come se volesse riposarsi per riflettere meglio sulla strada da fare e per orientarsi meglio, cominciò a rallentare per poi lentamente fermarsi nella stazione di Kamyshlov.

Serge riusciva ad addormentarsi anche se c’era altra gente con lui nello scompartimento; ma quella notte purtroppo era circondato da tre ucraini, di almeno sessant’anni ciascuno, per un totale di quasi due secoli. Lui era infastidito più dal loro accento che dal loro alito alcolico, il primo essendo ben più pesante del secondo. Quando i tre, dopo rumorose partite a carte, si addormentarono, erano almeno le due del mattino, l’ora giusta per lamentarsi tra di loro dei viaggi troppo lunghi, per una bestemmia astrusa sulle notti siberiane, e per perdere ancora sonno. Sentendo il treno rallentare, Serge, che aveva appena provato a chiudere gli occhi, li riaprì, prima uno solo poi l’altro, sperando che la sua fosse solo una sensazione. Dopotutto il viaggio era già abbastanza lungo per poter desiderare altre fermate, e se solo avesse potuto dormire ancora un’altra ora forse non avrebbe sentito la lunghezza della notte. Invece il treno cominciò a scivolare sui binari rallentando quasi senza rumore, come una nave in lontananza taglia l’acqua e non forma schiuma, fino a fermarsi, come se avesse naturalmente esaurito la sua spinta, al centro della stazione.

Dopo qualche minuto, nonostante tutti dormissero e che quindi potesse essere pericoloso lasciare l’entrata libera ai ladri dell’altopiano, qualcuno aprì le porte. Era stato il controllore: anche solo cambiare l’aria era un buon motivo, doveva avere pensato. Lei era Agnetska, una ragazza di una ventina d’anni, appena assunta, che non aveva ancora sviluppato la stessa resistenza delle sue colleghe più mature alla puzza cangiante di vodka russa, fumo mongolo, e piedi polacchi e cinesi. Aveva aperto una sola porta, quella vicino al suo piccolo scompartimento di servizio, aveva respirato due boccate d’aria gelida, e furtivamente era tornata al suo lettino. Se il capotreno l’avesse vista aprire le porte senza permesso e restare sui gradini con l’aria di voler fare la sentinella e comandare il treno, l’avrebbe rimproverata, o persino scritto un rapporto negativo su di lei: e allora chissà quando avrebbe potuto chiedere ai superiori un avanzamento di grado, o almeno il permesso di non fare i turni di notte!

Lo scompartimento di Serge si trovava a pochi metri dalla porta aperta. Era bastato il rumore pesante degli ingranaggi della porta e di metalli che si scontrano, per farlo alzare definitivamente dalla brandina. Un contrattempo, immaginò, un guasto, o un appuntamento del macchinista con una delle sue amanti sparse tra Mosca e Ulaan Bataar. Serge sapeva abbastanza bene che i cambi dei macchinisti sui treni di lunga percorrenza non si stabilivano in base alle ore di lavoro, ma in funzione di dove si trovavano le loro amanti. Doveva essere quello il motivo della sosta, perché tutto il personale del treno, nonostante la fermata non fosse prevista, non si mosse dal suo posto, come se fosse stato avvertito; forse entro mezz’ora si sarebbe ripartiti; e forse nessun viaggiatore avrebbe notato il ritardo.

Invece Serge si era già alzato, e con un passo barcollante dal sonno aveva raggiunto l’estremità del vagone, in cerca di qualcuno che ne sapesse più di lui. Lui aveva già notato Agnetska qualche ora prima, quando lei era salita alla stazione di Omsk. L’aveva osservata brevemente ed aveva concluso che era giovane, bella, che era apparentemente seria e ben educata, probabilmente non sposata, e non era escluso che non fosse disponibile a conoscere un ragazzo come lui. Lui era ragionevolmente convinto di essere ancora giovane e bello, era innegabilmente serio e ben educato, con tutta certezza non si considerava più sposato, e non era escluso che non fosse disponibile a conoscere una ragazza come lei. Serge non era solito interessarsi delle altre ragazze, il matrimonio gli era già sembrato troppo; ma ogni tanto si fermava a immaginarsi accanto a una sconosciuta, in mezzo a vite che non sapeva, in territori vaghi e oscillanti. Ma quella notte, il troppo sonno e l’aria alcolica, e soprattutto l’indecisione e pensiero di dover probabilmente incontrare sua moglie dopo pochi minuti, lasciavano a Serge ben poco dell’umore adatto a parlare con una persona qualunque. Sarebbe apparso invecchiato e sciupato, evidentemente troppo galante o molesto, il tipico divorziato in cerca di storie facili.

Arrivato alla fine del corridoio buio, orientandosi solo con le luci che venivano da fuori, Serge si aspettava di trovare il controllore o comunque un ufficiale del treno a presidiare la porta come Agnetska. Invece la porta sembrava essersi aperta da sola, su una stazione completamente vuota, su una banchina piatta, lurida e insignificante, che non invitava minimamente il viaggiatore a scendere dal treno, neanche quando questo era l’ancora più sporco 067 Ы di Novosibirsk.

Così Serge, troppo stanco per cercare veramente una spiegazione o qualcuno che potesse dargliela, dopo essere rimasto qualche minuto in piedi a guardare il nulla, e dopo essersi finalmente reso conto di trovarsi a Kamyshlov, si sedette sul gradino più vicino a lui, e cominciò a fissare il corso dei binari, senza voler pensare a nient’altro. Cercò di calcolare quanto tempo ci volesse per arrivare Ekaterinburg, ma non riusciva a concentrarsi neanche per un attimo, per schivando istintivamente il momento in cui avrebbe deciso se scendere. Dopotutto, poteva fermarsi là, in un posto qualunque, e prima o poi ripartire, come aveva fatto senza sosta negli ultimi mesi.

Da quando i viaggi erano diventati troppi e si fondevano in un vagare continuo, Serge aveva cominciato a perdere il senso del tempo e dell’orientamento, in mezzo a neve sconfinata, alberi e foreste, e città sconosciute, e persone conosciute un attimo e poi dimenticate. Durante le notti in treno, quando tra una sosta e l’altra il tempo sembrava oscillante e ostile come il vagone che lo trascinava a forza verso luoghi di cui scopriva il nome autentico solo dopo esserci arrivato e sfuggiva appena fuori dalla stazione, Serge, che aveva smesso di incuriosirsi al suo lavoro, cercava di convincersi che quel viaggio fosse l’ultimo, ogni volta l’ultimo, irripetibile; una tentazione che sentiva più acuta quando ripassava furtivamente da Ekaterinburg, meglio se di notte, per non riconoscere la sua città, il suo cielo piatto; ma poi ripartiva, continuava, spariva dietro l’orizzonte inglobato nel suono metallico e duro di rotaie ghiacciate.

Non era lui che aveva scelto consapevolmente di viaggiare così spesso. Lui, all’inizio, voleva soltanto non dover passare tutta la vita a Ekaterinburg, come Andrej, il suo ex compagno di scuola, e ormai anche ex amico, che era invece persino troppo attaccato alla città.

Andrej, sin dall’età della scuola, quando molti compagni, fantasticando sulla loro vita da adulti, immaginavano di andare a vivere un giorno nelle città famose e vivaci che mese dopo mese scoprivano studiando, Mosca, Leningrado, Kiev, e poi Pechino, Canton, L’Avana, e poi ancora New York, Washington, Londra, Parigi, ripeteva con caparbietà e un orgoglio velato di isprezzo che lui non aveva di questi sogni stupidi, che era nato a Ekaterinburg, là voleva passare tutta la vita e morire. Di solito, i compagni più grandi ridevano di lui, come di una lumaca che sceglie di vivere tutta la vita rannicchiata dentro la sua chiocciola, e muore senza neanche sapere come sono buone le erbette mezze secche, due metri più in là.

Erano tanti i conoscenti di Serge che in un modo forse meno ingenuo, o più opportunista, la pensavano allo stesso modo. Dopotutto, cosa mancava, a Ekaterinburg? La città era grande, ricca, antica, simbolica, dappertutto era ricordato che segnava il confine tra Asia e Europa: una vera capitale. Non mancavano i divertimenti, le donne erano belle e maliziose, e farsi una carriera era abbastanza facile, se solo, appunto, si accettava di vivere isolati dal resto del mondo per molti mesi all’anno, e nell’indifferenza totale del resto del mondo tutto il resto dell’anno. I ragazzini consideravano la squadra di calcio locale come la più forte in almeno tremila chilometri tutto intorno e, in effetti, non avevano torto.

Restare o partire era però la domanda che tutti si ponevano in un periodo della vita, forse per colpa di troppe aspettative riguardo al mondo esteriore, o forse semplicemente per noia. Anche se alla fine, comunque, non molti accettavano di lasciare le comodità della casa, l’insostituibile cucina dello Sverdlovsk, e la fidanzatina appena conquistata, per finire in città lontane ma sconosciute, o peggio ancora, nelle cittadine conosciute e disprezzate della Siberia Interiore.

Solo che Serge, nonostante il desiderio di allontanarsi da quel posto troppo lontano, dopo la laurea in diritto internazionale, che nelle sue intenzioni poteva aiutarlo a cercare un lavoro qualunque a Mosca, aveva iniziato a vedersi con una studentessa di economia internazionale che si pagava gli studi facendo la ragioniera nello studio di un notaio sull’Akademicheskaya Ulitsa. Serge e Monika, se non si fossero incontrati e piaciuti così presto, avrebbero sicuramente entrambi approfittato della prima occasione possibile per scappare da Ekaterinburg, per finire a Mosca o a San Pietroburgo, dove, specialmente dopo il ritorno del nome tradizionale, si respirava un’aria di rinnovamento e di vita sconosciuta fino a pochi anni prima nelle zone sconfinate e monotone che dormivano alle spalle degli Urali. Sarebbero stati amici, o soci, o colleghi. Avrebbero lavorato insieme. Invece, dopo poche settimane dal primo incontro nello studio del notaio, Serge non si era accorto di avere già iniziato, oltre alla carriera di avvocato, quella di marito: lui era giovane, lei era bella, l’inverno noioso, e nel marzo seguente, dopo cinque mesi di fidanzamento, l’ufficio di stato civile di Ekaterinburg riceveva la notifica di un nuovo matrimonio. Marito: Serge Balanowsky, età 33 anni, professione Avvocato; Moglie: Monika Severova, età 33 anni, professione Contabile; luogo di residenza, Ekaterinburg, Ulitsa Lenina48.

La cerimonia era stata breve, e in effetti breve fu anche la loro vita da marito e moglie. Il viaggio di nozze era durato meno di una settimana, tutta passata nella incomprensibile città di Astana: non ne sarebbe valsa davvero la pena, se non fosse stato che il solo fatto di trovarsi nel Kazakhstan dava loro l’impressione di viaggiare in chissà quale paese esotico. Al ritorno nella casa fredda e ancora quasi vuota, trovarono una lettera che doveva essere arrivata diversi giorni prima, perché era piuttosto umida e rigida. La comunicazione di un incarico immediato a Mosca.

Serge, in pochi minuti, senza neanche disfare il bagaglio del viaggio di nozze, cercò gli occhi di Monika. Occhi distanti. Non se lo erano mai detto prima, ma il progetto di lavorare insieme voleva dire prima di tutto creare e costruire insieme la loro via di fuga. Altrimenti sarebbe stato meglio non essersi sposati, e cercare la fortuna soli, lontani, in altri continenti. Troppo tardi. Il solo a partire sarebbe stato lui. Il matrimonio, in pratica, era già finito.

In pochi giorni l’orizzonte minimo e rassicurante di Ekaterinburg fu sostituito da quello complesso e imprevisto di un gigantesco studio legale in Turgenevskaya Ploshchad’, un nome fino a pochi giorni prima conosciuto solo dai film e dalla televisione, e che invece sembrava che stesse per diventare il centro della sua nuova vita.

Il direttore era un anziano giudice originario di Revda, ormai in pensione, che aveva conosciuto il padre di Serge dai tempi di Khruscev, quando per molti anni si erano ritrovati ad abitare insieme in uno dei nuovi palazzi che il governo aveva fatto costruire in quantità illimitate attorno alla vecchia città. Il giudice, Arkady Gredin, subito dopo la pensione aveva fondato questo studio a Mosca grazie all’aiuto di sue vecchie amicizie. Anche se in realtà erano stati proprio i suoi amici di un tempo, di quando i giudici venivano pagati a buon prezzo e offrivano buoni servigi, che avevano insistito per aprirgli uno studio legale in centro a Mosca, contando sulle complicità ancora solide tra Gredin e i soliti nomi importanti al Cremlino. Lo studio si sarebbe occupato di affari minerari, un ambito in cui i problemi sono più grandi e numerosi dei camion che trasportano carbone, ferro e oro dalle lontane Siberie ai centri vivi del Paese.

Gredin aveva stabilito un’amicizia sincera con il padre di Serge, e non appena fu possibile, più in nome dei vecchi rapporti di buon vicinato che della reale stima per il giovane avvocato, di cui l’ultimo ricordo era di almeno dieci anni prima, chiamò il ragazzo a lavorare per lui. Serge accettò il posto senza sapere bene se il merito fosse suo, di suo padre o di Gredin; ma l’unica persona che poteva ringraziare al momento era il giudice, dal momento che, a parte lui non si sarebbe complimentato affatto con se stesso, e in ogni caso suo padre era morto.

Lo studio era ampio, e vi si entrava da un palazzo monumentale appena sopra alla centrale fermata della metropolitana Turgenevskaya. Non c’era modo di vederla, questa, come una vera comodità, perché la piccola stanza che sarebbe servita da camera da letto si trovava nello stesso stabile dello studio, e poi, almeno nei primi tempi della sua permanenza a Mosca, l’altra unica destinazione di Serge era la stazione Yaroslavsky, che si trovava comunque a pochi minuti a piedi dallo studio.

Nonostante l’attesa di anni, nonostante, la separazione desiderata e volentieri affrettata da Ekaterinburg, nonostante la lontananza da Monika fosse inizialmente sopportabile grazie alle telefonate dallo studio, e nonostante finalmente potesse avere la sua prima occasione di sentirsi uomo e lavoratore in una città emozionante di giorno e splendida di notte, Serge non riusciva ad abituarsi alla sua piccola e anonima stanzetta. E la vista su un angolo del parco di Chistyy Prud, che chiunque altro al suo posto avrebbe immediatamente sfruttato per invitarvi le belle ragazze moscovite, non gli sembrava utile se non a guardare in direzione della sua vecchia e lontanissima Ekaterinburg. Pur senza ammettere a se stesso che adesso gli mancava la sua città, Serge guardava volentieri verso est, prima dell’alba.

Così, ogni volta che era possibile, una volta al mese, il quarto venerdì pomeriggio, appena dopo la chiusura della pesante porta dello studio, Serge, con l’aria di chi avesse dimenticato di comprare una medicina urgente, correva senza bagaglio verso la stazione, per saltare sul treno pochi minuti dopo. Viaggiava in cuccetta, la sistemazione che riteneva la più adatta a lui, più per necessità che per orgoglio: perché ogni volta che comprava il biglietto, riposato, faceva finta di non ricordare come si sarebbe sentito ventotto ore dopo, all’arrivo.

Il viaggio, in direzione Ekaterinburg, iniziava sempre con lunghi minuti di litigio per il posto, anche se alla fine, una volta disteso, e appoggiate le gambe sui pacchi dei compagno di viaggio, che occupavano anche parte del suo spazio, Serge si addormentava per delle lunghe ore, per svegliarsi già dalle parti di Nizhny Novgorod. A quel punto la conversazione, che si era interrotta dopo le trattative sulla sistemazione dei bagagli, si riaccendeva per alcuni minuti sulla rabbiosa disputa sui nome delle città. Serge, che pur non essendo stato comunista, quando viaggiava verso casa era pervaso da sentimenti nostalgici universali, argomentava con calore che era meglio quando, fino ancora a pochi anni prima, la città si chiamava Gorky. E anche Ekaterinburg, nei momenti in cui ne andava più fiero, riacquistava per lui il gagliardo nome di Sverdlovsk.

Ma d’altra parte, un nome o un altro erano indifferenti, perché tanto nessuno di loro vedeva delle città che incontravano se non i cartelli delle stazioni e i venditori d’acqua che per dieci minuti si affollavano davanti ai finestrini; questi a volte erano così appannati che neancheci si ricordava di aprirli, tanto che per sapere in quale città si fosse arrivati bisognava consultare il pannello appeso vicino ai gabinetti. Serge provava a dormire il più possibile, per cercare di restare sveglio il più possibile quando sarebbe arrivato a casa.

Quando andava bene, Serge restava a casa la sera del sabato e l’intera giornata di domenica, quando già era l’ora di ripartire per Mosca, calcolando di arrivare il lunedì sera, e di farsi perdonare con degli straordinari durante gli altri giorni il ritardo sull’inizio della settimana.

Il tempo con Monika era prezioso, e i due lo passavano interamente insieme. Sin dall’arrivo alla stazione, si tenevano per mano, sentendo di essere tutto sommato ancora due sposini, e calcolando che, nonostante fossero passati già diversi mesi dal matrimonio, il tempo trascorso davvero insieme li autorizzava a farli considerare ancora nel tempo dorato della luna di miele. Una volta a casa, dopo una cena essenziale, che doveva lasciare spazio a un tipo di fame più appassionata e più insaziabile, dormivano abbracciati, tutta la notte, guancia contro guancia. L’indomani mattina si lavavano insieme, preparavano da mangiare insieme, e Serge ogni volta stupiva Monika per le ricette moscovite e ucraine che aveva imparato stando a Mosca, e per i modi di parlare, eleganti o triviali, che a volte, in ufficio, scambiava con i colleghi o i clienti.

Dopo le prime volte, trovando questi ritorni troppo veloci, Monika escogitò il modo di aumentare il tempo per restare insieme a Serge, andandogli incontro prima del suo arrivo fino alla stazione di Druzhinino e riaccompagnandolo ancora una volta là prima che il treno per Mosca si perdesse negli sconfinati altopiani tra Krasnoufimsk e Kazan. La stazione di Druzhinino, un luogo desolato, più grande del paesino di cui portava il nome, era riempita nei suoi binari morti da lunghi treni merci arrugginiti e apparentemente abbandonati. E quando il treno per Mosca ripartiva, Monika rimaneva sola sulla banchina, sotto il cielo, spiata dalla solita coppia dei venditori di birra che non capivano come mai una donna sola potesse scendere dal treno in quella stazione, piangere per mezz’ora finché non passava il treno per Ekaterinburg, salirci, e scomparire fino al mese successivo.

A Mosca il lavoro di Serge non era poi così interessante, si trattava soprattutto di raccogliere e mettere in ordine le documentazioni delle prove favorevoli ai clienti dello studio, carteggi che provenivano da ogni parte della Russia. Di tanto in tanto, Gredin mandava Serge personalmente a controllare nei vari uffici giudiziari della capitale l’avanzata di alcune pratiche. Non è che davvero Gredin fosse convinto delle qualità di Serge; e non è che Serge poi si stesse impegnando tanto in quel lavoro. Così, un giorno, il vecchio giudice trovò un modo per allontanare Serge mantenendo la gratitudine alla memoria del padre. Avrebbe mandato il ragazzo personalmente a cercare e a sollecitare i documenti nelle città dei suoi clienti. Così, la prima volta Serge fu mandato a Vladimir, a duecento chilometri da Mosca. Il treno era lento, e ci mise più di tre ore. Serge passò a Vladimir tre giorni, e non vide nient’altro che la sede locale di un’industria mineraria diffusa su tutta la Russia. Là, per la prima volta, sentì parlare di posti veramente lontani: una segretaria con la pelle chiarissima e i tratti orientali diceva di venire da Ossora, un posto che per i russi occidentali era davvero ai confini dell’universo. Serge, capendo dai tratti e dall’espressione del viso della ragazza quanto fosse distante questa Ossora, si stupì vistosamente, senza avere affatto capito dove mai fosse un posto dal nome così sospettosamente esotico.

Serge tornò presto da Vladimir, con un bel fascicolo in mano, qualche storiella da raccontare a Gredin, e due parole da dire anche a Monika. Sembrava essersi divertito, aveva conosciuto gente interessante, e aveva viaggiato in posti che prima non conosceva. Sempre meglio che stare per settimane intere rinchiuso nello stesso palazzo a Mosca. Forse, pensava, Mosca è più attraente per chi se la sa godere, per chi conosce degli stranieri, inglesi, tedeschi, per chi ha soldi da spendere in vestiti e divertimenti alla moda. Per chi ha una ragazza, o più di una… Lui non era interessato ai soldi, anche se poteva dire che non gliene mancassero. Inoltre, se si escludono i viaggi a casa, non aveva quasi altre spese, perché anche l’affitto della stanza era a carico dello studio del giudice.

Serge cominciava a ridimensionare l’ammirazione che aveva avuto per Mosca quando era ragazzo; probabilmente, si convinceva, alla televisione si vede meglio. Anche se soprattutto gli mancava non potere uscire la sera con Monika, mostrarle i posti più famosi di Mosca che lui ormai comunque conosceva bene, passeggiare tra i raffinati negozi francesi e italiani, o farla spaventare raccontandole dei quartieri tremendi vicino alla Begovaya, dove i rapitori bielorussi afferravano le ragazze della provincia inesperte, e chi lo sa che cosa ne facevano.

Ma poco a poco, la lontananza da Ekaterinburg e Monika cominciava a diventare una parte abituale della sua vita, una cosa normale, fino a quando una sera, dopo una giornata di lavoro e di pioggia ininterrotti, che gli avevano impedito di trovare il tempo e l’umore giusto per chiamare Monika, Serge uscì per fare una passeggiata, sulle strade ghiacciate e lucide, e senza fermarsi e quasi senza pensare arrivò fino alla Galeria Tretyakovskaya, senza avere pensato nemmeno una volta a sua moglie. Lui stesso non si stupì, o più precisamente si sorprese del non essere stupito: sebbene spesso gli capitasse di camminare senza meta in città, ogni volta fino ad allora aveva visitato i posti come se li stesse esaminando e valutando per farli un giorno vedere a Monika, trovando il percorso migliore e più spettacolare, o cercando le parole che meglio descrivessero quello che vedeva. Invece quella volta, pur dopo aver camminato quasi un’ora in una delle zone più affascinanti del centro, e avere visto per l’ennesima volta dei monumenti celebri ed effettivamente magnifici, si ritrovò con un vuoto del tutto silenzioso in testa, che gli faceva sembrare la camminata come una promenade tra immagini fisse e senza vita, in cui palazzi e volti reali avevano la fissità di quadri posati a terra in disordine prima di un’esposizione, un viaggio inesistente e senza senso tra luci e voci disorganizzate.

Era la prima volta che Serge notava con tanta certezza la sua totale estraneità a quei luoghi: fino a poco tempo prima, quando ogni tanto la sera girava tra le strade affollate del centro, si figurava di essere un vero moscovita, di conoscere le strade meno frequentate, le chiese straniere, e i palazzi abbandonati che avevano ospitato per decenni le vecchie delegazioni dei Paesi della ormai invisibile Unione Sovietica; e quando capitava che un forestiero o un vero turista gli chiedesse delle indicazioni, chi per la Piazza Rossa chi per la stazione Kursky, andava fiero della sua tutta nuova capacità di rispondere senza esitazioni. Non avendo amici che camminassero con lui, Serge non poteva vantarsi che con se stesso, cercando conferme negli sguardi soddisfatti dei suoi interlocutori.

Quella sera, invece, dopo avere camminato per ore tra le stradine spoglie di Pyatnitskaya dove l’orgoglio russo, in mancanza di una bellezza autentica, poteva solo fondarsi sul senso di appartenenza al Paese, Serge si sentì invece un estraneo, meno di un turista e meno anche di un semplice emigrato dagli Urali, che pure in quel quartiere non doveva certo essere una rarità. Forse il fatto di avere raggiunto il suo obiettivo – andare a Mosca – troppo in fretta e senza una sua vera partecipazione gli aveva fatto perdere interesse nel resto del suo lavoro e della sua vita in un posto che, se solo lui avesse voluto viverlo con più attenzione, sarebbe potuto essere un vero paradiso. Ora invece anche l’immagine e la voce di Monika sembravano essere diventate soltanto proiezioni della memoria, immagini trasparenti come di un sogno, come di una fissazione senza legami con la realtà.

La sera era fredda, i pochi giorni di novembre in cui la temperatura saliva sopra lo zero erano passati, e adesso l’acqua delle pozzanghere ghiacciava dopo pochi minuti. Serge, cominciò ad osservarsi, aveva le mani gelate, e non se ne era accorto. Per tornare a casa attraversò solo strade principali, non per arrivare prima, ma per sentire meglio che non era solo, in mezzo a molti milioni di totali sconosciuti.

Era un venerdì sera. Serge non aveva chiesto di tornare a casa; prima di tutto non l’aveva chiesto a Monika, perché prima ancora non l’aveva chiesto a se stesso. Per una volta sarebbe rimasto a Mosca anche il quarto fine settimana. Monika, lei, probabilmente non gli avrebbe chiesto spiegazioni, si era anche lei abituata a un marito che restava per poche ore. Essere sposati si era ridotto a essere soltanto un esercizio della mente.

Serge cominciò allora ad accettare le proposte che Gredin, ancora più contento di lui, gli faceva sempre più spesso. Così viaggiare passò da un’occasione a lungo progettata e quasi segreta di rivedere la sua Monika a un diversivo rispetto alle giornate in ufficio, e infine a un’abitudine quasi settimanale.

I viaggi, inizialmente di uno o due giorni, poi diventarono più lunghi e lontani. Se nei primi tempi non lo allontanavano più di qualche centinaio di chilometri, dopo qualche settimana si fecero sempre più lunghi e lenti. Serge vide le città più famose della Russia: la linea transiberiana diventò un percorso conosciuto fino a OmskNovosibirsk, poi Krasnoyarsk, e poi una volta, persino a Vladivostok, l’unico posto per il quale gli era stato concesso di prendere l’aereo. E verso Nord, Arkangel’skDudinka, e nomi e posti che neanche i capotreni conoscevano. Lui viaggiava, ma non spaventato né affascinato dalla distanza: stava solo lavorando, e cento o mille o cinquemila chilometri erano solo somme di percorsi, accumulati come la neve, gli uni sugli altri. Una volta sarebbe dovuto andare ad Astana, ma il ghiaccio aveva bloccato i binari appena fuori Samara. Peccato; durante il viaggio di nozze gli era sembrata così bella, che ci sarebbe ritornato volentieri una nuova volta. Ad ogni città nuova che vedeva, Serge immaginava come sarebbe stato se ci avesse abitato a lungo, rassicurato dal fatto che comunque, per fortuna, la sua casa si trovava indiscutibilmente nel centro di Mosca. Una casa che però era diventata un rifugio saltuario, e nella quale si sentiva di troppo, pur abitandoci da solo.

C’erano città che vedeva una sola volta, e che dimenticava una volta ritirati i suoi documenti.

Vladimir, invece, era una destinazione consueta. Eppure, così come la prima volta, neanche in seguito Serge riuscì ad interessarsi della città, e se arrivò a conoscerla tutto sommato abbastanza bene era solo perché ne aveva parlato innumerevoli volte con i compagni di treno che ci andavano per turismo, e che non capivano la sua ostinata indifferenza di fronte alla Porta d’oro e alla Cattedrale dell’Assunzione.

A dire il vero, dopo quel primo periodo in cui si era accorto che poteva vivere perfettamente senza Monika, Serge, metà spaventato da se stesso, metà pentito, cominciò a cercare di sfruttare i viaggi in direzione est per allungare di un poco il percorso e, quando era fortunato, tornare a casa per qualche ora. Quando arrivava, però, nonostante la momentanea emozione di ritrovarsi nella sua città, tra le strade che conosceva senza bisogno di osservare, e la simulata felicità di riabbracciare Monika, sentiva intimamente di non essere più suo marito, ma quasi un amante lunatico, e per tutto il giorno stava in agitazione, come se il tempo a disposizione fosse più breve di quello reale, o come se inconsapevolmente sapesse che la sua presenza, invece di essere benvenuta, era importuna, e come se in effetti stesse turbando la monotona vita provinciale di Monika; un giorno, senza neanche provare gelosia, cercò di immaginare come avrebbe reagito se avesse scoperto che lei, nel frattempo, aveva un altro.

E queste sensazioni altalenanti durarono finché, come lui stesso già intuiva che sarebbe successo, si ritrovò a passare da Ekaterinburg senza sentire il desiderio di fermarsi almeno qualche ora, e lasciando che il treno stazionasse anche a lungo, senza neanche provare a scendere per prendere una boccata d’aria. Anzi, dopo le prime volte che era passato di là la notte, quando i treni corrono e si fermano solo pochi minuti, aveva imparato a non guardare dal finestrino, a non pensare più ad appartenere a nessuno né a nessun posto, e di spostarsi con lo stesso peso di un vagone di treno, trasportato, guidato, frenato, depositato.

Con la stessa noncuranza Serge si sforzò di vincere la su innata diffidenza dagli estranei e finalmente a dormire nelle cuccette la notte, come era naturale, invece che il giorno, come aveva sempre fatto nei suoi primi viaggi verso casa. E, ormai che si era assuefatto ai percorsi bianchi, infiniti e dritti delle steppe centrali, imparò anche a disinteressarsi del tutto alle città, alle foreste, ai luoghi, ai dialetti fastidiosi dei compagni di viaggio e agli odori di cibo preparato e pronto da comprare che ad ogni stazione entrava forzatamente dalle finestre del treno in sosta.

Quella sera, dopo tanto tempo, sapendo che sarebbe passato da Ekaterinburg, decise che forse si sarebbe fermato a salutare Monika. Forse le avrebbe fatto una sorpresa, per la prima volta. Lui non voleva avvertirla, anche se il suo non era affatto il desiderio di farle una sorpresa, quanto l’incertezza di non avere ancora deciso se davvero fermarsi o no da lei, sulla via del ritorno a Mosca. Avrebbe deciso, probabilmente, se se ne fosse ricordato, se ne fosse valsa la pena, solo all’ingresso nella sua vecchia città.

Stava tornando da una missione a Karmakla, nella terra dei laghi, e si sentiva ancora innervosito da l suo cliente, un grossista di antracite che in un processo che avrebbe dovuto essere semplice si era invece fatto condannare a risarcire dei concorrenti, solo perché non aveva voluto fidarsi di lui, così giovane e provinciale, e che avrebbe preteso di farsi difendere direttamente da Gredin. Non era raro infatti che le missioni di Serge, che in teoria avrebbe semplicemente dovuto portare o ottenere documenti, finivano per prolungarsi, e obbligarlo a partecipare come avvocato esterno ai processi dei clienti dello studio. In quei casi, che pure dovevano essere sentiti come intoppi, Serge ritrovava la sua energia e si teneva in allenamento per quella che originariamente doveva essere la sua vera professione, l’avvocato. Ma capitava che i clienti non si fidassero di lui, senza spiegargli che il suo difetto non era l’età giovane, e neanche il nome, ma la mancanza di amicizie giuste. E se ad ogni viaggio le sue conoscenze di legge aumentavano, quelle delle cosiddette persone giuste diminuivano, visto che non era raro che qualche vecchio cliente di Gredin finisse per trovarsi un nuovo legale.

Il suo treno era partito dalla minuscola stazione di Chany alle tre del pomeriggio. Già a quell’orario, in inverno, non c’era modo di rendersi conto di quanto fosse brutta la stazione, con quel colore verde stinto e neanche due metri di pensilina per ripararsi dalla pioggia. La banchina era rumorosa, il vento soffiava attraverso i numerosi tralicci dell’elettricità, e il sibilo ondeggiante faceva pensare a Serge al rumore dell’acqua che in autunni iniziava a gelare sul lago Gorodskoy nel centro di Ekaterinburg, e a quanto tempo era passato da quando era stato l’ultima volta con Monilka sulle panchine davanti allo stadio, prima del matrimonio.

Poco dopo i primi chilometri di una neve che di sera appariva irreale e grigia, Serge si era già addormentato. Si era svegliato solo dopo quattro ore, a Omsk, per ritornare a dormire poco dopo la cena. Nonostante i tre ucraini, e l’aria chiusa e acida di alcol, si era addormentato, per risvegliarsi di nuovo, nella notte più profonda e senza motivo, a Kamyshlov.

Come se il suo viaggio non fosse mai neanche cominciato, Serge si ritrovò in un’altra stazione inutile, dello stesso verde stinto di quella di Chany, e altrettanto buia. Cercava di ricordare dove stesse andando, se a Mosca, a Ekaterinburg, o se semplicemente stesse vagando senza sosta da un posto all’altro, tra un’infinità di punti separati e senza significato, come aveva fatto tante volte, la sera, a Mosca. Dondolando il piede in mezzo al vuoto, il solo rumore che gli sembrava di sentire era quello dei pantaloni che strisciavano sulla scarpa pesante. Ritornò nello scompartimento, a fare finta di dormire e ad allontanare il momento di prepararsi o rinunciare all’incontro non ancora fissato con Monika.

Durante la notte immobile, senza motivo e senza spiegazioni, in cui le ragioni e i desideri si mescolavano fino ad annullarsi, Serge sembrò ritornare ai momenti incerti di tanti mesi prima, in cui ogni ritorno preparava una separazione dolorosa e inevitabile; Serge passò la notte ad osservare lo scompartimento in cui piano piano il buio veniva asciugato dalla nuova luce, e finalmente all’alba il treno ripartì, senza ragione e senza preavviso, così come si era fermato poche ore prima. Mentre si allontanava dalla stazione, gli sbalzi dei binari che si incrociavano scuotevano il corpo di Serge, e lo sollecitavano alla scelta. Infiniti prati si susseguivano, confondendosi e sovrapponendosi, e lasciavano lo sguardo Serge a inseguire l’orizzonte. Solo il lungo suono stridulo della frenata alla stazione Passazhirskiy lo risvegliò. Come ogni volta che tornava a Ekaterinburg, un vecchio pensiero, al quale lui stesso non sapeva più se credere, vibrò senza parole nella sua mente. Questo sarà l’ultimo viaggio.