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Dietro i suoi passi

[Post in fase di scrittura]

Ieri pomeriggio, finalmente, ha piovuto. Una pioggia improvvisa e pesante, che si è fatta aspettare per lunghe settimane, nel cielo troppo vuoto di agosto. L’aspettavamo almeno da un mese, io e Hyn Uk; così, visto che la faccenda prendeva tempo, e visto che da quando siamo andati in pensione l’unico modo interessante per passare le giornate è quello di cercare di indovinare e prevedere le più infime sciocchezze, un giorno abbiamo iniziato a scommettere anche sul tempo. Quando pioverà la prossima volta, ci siamo detti, ci ubriacheremo, e festeggeremo la pensione. Non prima della pioggia.

Era tradizione, nel distretto di Daegu, che il momento della pensione si festeggiasse con il migliore amico, che poi era la persona che ti aveva presentato, quaranta o cinquant’anni prima, al tuo primo padrone. Così come la vita di un vero uomo comincia con la prima donna che si conquista e si possiede, la vita di un vero lavoratore – dicevamo noi – comincia col primo padrone al quale si promette fedeltà. Non è come conquistare una donna, perché in con il padrone non puoi vantare qualità che non hai, lui è troppo furbo per crederci. E poi una donna, se la lasci, troverà ben presto un altro uomo da illudere e fargli credere una conquista, mentre se perdi il lavoro, chi lo vede più un pranzo decente? A Daegu, poi, i padroni erano specialmente pignoli in fatto di dipendenti, e se ne conquistavi uno te lo tenevi più stretto di una moglie. Almeno nel ’56.

La tradizione dice che l’amico che ti ha presentato al primo vero padrone ti ha fatto diventare un vero lavoratore, e ha permesso che arrivassi fino alla vecchiaia: e quindi gli devi un ringraziamento al momento della pensione, e un posto a tavola ad ogni festa di famiglia. Il mio amico era Hyn Uk. Nel ’56, quando avevamo quattordici anni, suo zio aveva una fabbrica di lattine di alluminio, fragili e puzzolenti, buone solo per riempirle di tonno acido, anche se c’era chi le comprava usate per nasconderci i soldi. Si pensava che nessun ladro avrebbe immaginato di cercare i soldi nell’olio di tonno, e che in ogni caso, non li avrebbe presi, tanto erano unti e disgustosi.

In quell’anno, una sera d’agosto, eravamo riusciti quasi per miracolo ad ottenere un appuntamento con due ragazze di Mullan, un paese vicino al nostro. Per questo appuntamento avevamo comprato delle scarpe nuove, che avevamo lucidato molte volte prima di uscire, come se quella lucidatura e la nostra costanza, o magari il profumo di pelle nuova avesse un qualche potere magico, avrebbe impressionato sicuramente le due ragazze, e le avrebbe certamente fatte innamorare immediatamente di noi. Credevamo ancora che le ragazze si innamorassero per i meriti dei ragazzi: troppo tardi capimmo che l’unico merito veramente efficace era un lavoro promettente, o una casa con il frigorifero, e meglio ancora un padre ricco. Una volta scesa la sera, ci eravamo preparavati ad andare a incontrarle, così incamminammo attraverso la campagna deserta, che cominciava appena dopo la casa di Hyn Uk. Profumavamo di cuoio, un odore morbido e umido che saliva dai nostri piedi non abituati alle scarpe chiuse, e a disagio, come quando si entra in casa d’altri senza invito. Dopo un quarto d’ora di marcia, ritmata dal suono croccante delle scarpe nuove, una pioggia improvvisa e inaspettata ci bagnò completamente, rovinosamente, in un attimo, noi e le scarpe. Un disastro per le scarpe. E quello sentimentale seguì dopo pochi minuti. Arrivammo a Shouer in ritardo di almeno mezzo’ora, impiagata a tentare di ripulirci. E in effetti le scarpe erano state lavate e scrollate, ma le mani e le camicie erano rimaste coperte di fango, foglie, e un pesante odore alcolico di cuoio muffito. Le due ragazze ci avevano aspettato dapprima con interesse, poi con impazienza, infine con rabbia. Appena noi, come se fossimo stati d’accordo, chiedemmo scusa, loro, come se fossero state d’accordo, ci riempirono di insulti, si voltarono e se ne andarono.

Addio alle ragazze, addio alle scarpe.

Io e lui decidemmo che avremmo dovuto cercarci un lavoro. Un lavoro vero, che ci permettesse di guadagnarci da vivere, ricomprare dei vestiti, e forse un giorno cercarci una moglie vera e tutta per noi, invece di stare a guardare le ragazze più grandi uscire e perdersi in campagna con i nostri amici.

Non era forse il momento migliore, per noi, di trovarci un lavoro. Tutti nel villaggio avevano saputo della figura da bambini che avevamo fatto con le ragazze, e nessuno avrebbe affidato un incarico a due ragazzini che evidentemente volevano solo far finta di essere cresciuti, ma senza esserlo davvero. Avevamo provato dal pescatore, Min Yul, ma anche annodare le reti rischiava di essere impossibile per noi, troppe mosse da ricordare, e troppo preziose le reti per essere rovinate da un ragazzo.

Dopo avere girato tutto il paese, ed esserci diverse volte persi d’animo, la madre di Hyun Uk ci raccomandò al fratello, che fabbricava scatole di latta. Suo fratello, Kim Syng, era magrissimo, quasi che lavorare e schiacciare la latta, anno dopo anno avesse fatto assottigliare anche il suo corpo. Per non parlare della puzza di olii industriali, ma comunque derivati da semi di piante a noi sconosciute, odore che inebriava le mosche e quelle farfalline estive e trasparenti, che cadevano nelle piccole pozze d’olio mai asciugate tra gli ingranaggi, ma che repelleva qualunque persona non lavorasse in fabbrica da almeno due anni.

Kim Syng volle vedermi; non che non mi conoscesse, se non altro perché mi aveva sempre visto giocare con suo nipote, ma voleva farsi un’idea più chiara del perché mai un ragazzo svagato come me avesse pensato di lavorare in una fabbrica, dove alla minima distrazione si rischiava – se andava bene – di essere licenziati, o addirittura di perdere due o tre dita nei macchinari americani, quelli nuovi, che giravano così velocemente che le ruote dentate sembravano le ali dei fringuelli di Ch’onsu-man, famosi per quanto rapidamente volavano via al minimo rumore. Lui mi guardò negli occhi, e anche se il suo sguardo non era certo impressionante, almeno non per la sua inesistente forza minacciosa, il fatto che potesse decidere se assumermi o no mi lasciava un vago timore e mi fece abbassare il tono di voce, e anche quel poco di entusiasmo che avevo prima di incontrarlo.