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Scegliendo i paesaggi

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La scoperta del mare

La prima volta che Nsue vide il mare, pioveva.

Aveva cinque anni e mezzo, e suo zio Akuete gliene aveva parlato spesso, descrivendolo al bambino curioso come una specie di cielo ribaltato e liquido, dove gli alberi non avevano tronco, ma solo lunghe foglie, gli uccelli non avevano ali, e allora anche persone potevano volare. Suo zio raccontava storie di pesci enormi, viaggi pericolosi e tempeste e barche naufragate; voleva fare bella figura, si vantava tanto che sembrava l’avesse scoperto lui per primo.

Nsue non era sicuro se credere o no a quei racconti così appassionati, ma nel dubbio il desiderio di vedere il mare si rafforzava ad ogni nuova storia che ascoltava.

Nsue abitava in un villaggio a pochi chilometri da Kukumancoc, e come tutti i bambini della sua età, non aveva mai visto il mare. Lui però, diversamente dagli altri, aveva la fortuna di essere il nipote di Akuete, che invece lo vedeva spesso.

Quando lo zio tornava dopo le sue periodiche assenze di quasi due settimane, la prima cosa che Nsue faceva era proprio chiedergli di raccontargli qualcosa di nuovo, come se da un mese all’altro l’oceano potesse prosciugarsi e scomparire, o magari decidere di spingersi fino a Kukumancoc solo per farsi ammirare, e poi tornare indietro.

Per quanto assurdo, Nsue in fondo sperava proprio che un giorno, in un modo o nell’altro, la superiorità che gli veniva dal conoscere tante cose rispetto ai suoi coetanei venisse confermata da qualcosa di innegabile e definitivo, se non addirittura dal mare in persona, che venisse a mostrarsi per dargli ragione davanti a tutti.

Nell’attesa di questo improbabile evento, Nsue si preparava da tempo a vederlo un giorno nella sua sede naturale, la spiaggia di Bata.

Finalmente, un giorno lo zio, tornato insolitamente in anticipo da uno dei suoi soliti viaggi, lo chiamò e gli disse: “Domani andiamo a vedere il mare”. Sapeva che l’avrebbe fatto felice, e appunto per questo non volle aggiungere altro; poi sparì nella sua stanza e andò a smontare il bagaglio che aveva con sé e a preparare il nuovo.

Anche Nsue voleva preparare il suo, ma non sapendo cosa portare, prese solo l’oggetto più intrepido che possedesse, un cappellino di stoffa con la visiera di plastica iridescente.

I viaggi di Akuete erano molto regolari: ogni due settimane scompariva a piedi dal villaggio, e ricompariva dopo dieci giorni, sempre a piedi, ma con la barba molto più lunga e carico di oggetti.

La camminata durava fino a Kukumancoc, poi il viaggio proseguiva fino a Niefang su una corriera degli anni ‘80, poi su un’altra corriera, meno vecchia, fino al centro di Bata, e poi di nuovo a piedi al porto. Saliva sulla Encelada, la barca di suo fratello Mitoha, il pescatore-postino, che sfiorando tutta la costa, all’unico prezzo di due birre lo portava a Mbini. Da là saliva su un’altra corriera fino ad Acalayong. Il viaggio era spossante, e sulla strada non si vedeva altro che giungla e polvere: poco prima dell’arrivo, solo la vista sulla maestosa foce del Rio Mitemele poteva ripagare tutta la fatica e la sete accumulate in otto ore di sobbalzi.

Attraversava lo stretto sulle piroghe di Francisco Myone, che poi lo ospitava in uno stanzone lurido della sua casa di Kogo, insieme ai viaggiatori che l’indomani sarebbero ripartiti verso nord.

Una volta svegliato, Akuete cercava il traghettatore Obiang, e lo trovava sempre mentre mezzo addormentato ma ancora all’erta dentro il suo gommone giallo: aveva paura dei ladri e dei gabonesi; finalmente in sole tre ore di acqua salata negli occhi, puzza di nafta, e insipide barzellette sui gabonesi, giungeva all’isola di Corisco.

A Corisco restava una settimana, e la passava a cucinare per gli americani e gli europei che si davano il cambio per misurare e rimisurare il terreno dell’isola. Cercavano il petrolio, ma le trivellazioni non iniziavano mai, perché ogni mese arrivava un esperto più esperto di quello del mese precedente, che chiedeva sempre nuove rilevazioni e se ne andava senza avere concluso niente.

Cucinare per loro era facile e rendeva bene, e ogni volta si imparavano due o tre nuove parole di inglese, buone per darsi arie di giramondo con gli amici a Mbini e a Bata.

Il viaggio di ritorno a casa durava un giorno in più, che serviva per comprare con i soldi nuovi quello che serviva al villaggio. Akuete si fermava nei vari mercati lungo tutta la strada, a contrattare e scambiare continuamente dollari, pesce fresco, franchi, pane, bottiglie di plastica e scarpe da tennis importate.

La sera dei decimi giorni, proprio quando al villaggio le donne iniziavano a cucinare insieme, Akuete tornava, e prima ancora di rientrare a casa distribuiva loro le spezie e gli oggetti che gli erano stati commissionati prima del viaggio; solo allora poteva cercare Nsue, regalargli minuscoli giochini o portachiavi di metallo che gli avevano lasciato gli americani, e raccontargli per l’ennesima volta del mare e di come quella volta si era comportato con lui.

Veramente quell’ultima volta il mare si era comportato male, scuotendo più del solito il gommone di Obiang; e anche tutto il resto era andato abbastanza storto, perché una tempesta si era abbattuta su Corisco, anticipando di molto il ritorno dei tecnici Spagnoli e Inglesi, così che anche lui era dovuto tornare prima.

Non avendo altro da fare ancora per alcuni giorni, Akuete pensò di a fare un regalo a Nsue: l’indomani lo avrebbe portato a vedere il mare, a Bata, a poche ore dal villaggio. Avrebbero passato la giornata a pescare con suo fratello, per guadagnarci quaranta franchi e magari rivendere al villaggio qualche pesce fresco per la cena.

Così, l’indomani mattina, prima che il sole fosse troppo caldo, Nsue e lo zio si incamminarono a passi svelti verso il paese.

Nsue era stato diverse volte a Kukumancoc, e di solito non faceva più caso neanche alle profonde buche della strada, ma stavolta era diverso, e cercava di fare attenzione ad ogni albero, a ogni persona che incontrava, per ricordarsene un giorno; e gli sembrava che tutti gli adulti che incontrava sapessero segretamente del viaggio importante di quel giorno, e gli mandassero chi degli sguardi di complicità e approvazione, chi di sfida, come a dire: “non vedi che sei troppo piccolo per camminare fino al mare?”

E in effetti, Nsue sapeva bene che era troppo piccolo, e non aveva idea di dove fosse davvero, il mare. Sapeva che bisognava attraversare foreste e foreste, fiumi, ancora foreste, villaggi sconosciuti e troppo grandi, ma questo era soltanto il quello che ricordava dei racconti dello zio Akuete; e dopo diverse ore di strada in mezzo a distese sconfinate di alberi, cominciava a preoccuparsi e a perdere la fiducia nello zio.

Man mano che procedevano sulle corriere rumorose, i nomi dei paesi diventavano sempre meno familiari: Akoga, Evinayong e persino Niefang gli sembravano conosciuti, ma quando sentì i passeggeri vicino a lui lamentarsi che erano in ritardo per il mercato di Machinda, cominciò davvero a temere di essere finito chissà dove. L’entusiasmo di poche ore prima gli sembrava restare impigliato tra i rami degli alberi che a tratti sfioravano il vetro della corriera. E, per giunta, lo zio seduto accanto a lui si era addormentato!

A Machinda, la corriera dovette fermarsi più a lungo del solito, perché come temuto era arrivata in ritardo per il mercato, e otto passeggeri piuttosto anziani si lamentavano con l’autista dandogliene tutte la colpa; lui invece, si difendeva, non aveva colpa di niente, la corriera era del suo padrone, e se lui, per fare presto, avesse avuto un incidente, avrebbe dovuto rimborsare tutti i danni con i suoi soldi. Era giovane, la sua pelle nerissima era lucida di sudore, ma più per la paura di perdere i clienti abituali del suo padrone che per il calore, che pure era soffocante.

Anche Nsue cominciava a soffrire il caldo. Era quel caldo umido e minaccioso di inizio estate, quando il vento sibila come i serpenti velenosi, e annuncia la pioggia e la tempesta a chi sa decifrare il suo linguaggio senza suono. Gli anziani avevano capito che la pioggia sarebbe arrivata entro poco tempo, e se la prendevano con l’autista come se anche la pioggia fosse colpa sua e della sua corriera vecchia di trent’anni.

Il rumore dei battibecchi svegliò Akuete. Vedendo lo zio sveglio, Nsue gli chiese con apprensione dove fossero. Questa ulteriore attesa innervosiva il bambino, che pur rassicurato che mancassero solo pochi chilometri al mare, vedeva il cielo sempre meno incoraggiante, e risentiva del nervosismo delle persone attorno a lui.

Al rinforzare del vento, i venditori del mercato cominciavano raccogliere le stuoie, la frutta e i pesci salati, prima che la polvere e l’umidità li rovinassero completamente. Mitobo Nzang, il venditore ambulante di scarpe più conosciuto del Litoràl, si limitò a coprire la sua mercanzia con uno spesso sacco di plastica trasparente. Si vantava che i suoi clienti arrivassero persino dalla provincia del Wele-Nzas, e, che fosse vero o no, nessuno lo avrebbe smosso da là fino al passaggio della corriera che da Mongomo portava a Bata.

La corriera di Nsue ripartì esattamente all’arrivo delle prime gocce di pioggia, come se quello fosse un segnale di lasciapassare. Anche gli anziani, ormai rassegnati, erano scesi e si erano radunati dall’altro lato della piazza. Avrebbero aspettato la stessa corriera per il viaggio di ritorno: il giovane autista intuiva già come avrebbe passato le ore seguenti!

La pioggia ora sembrava scendere più consapevolmente, forse voleva davvero rovinare la festa a Nsue. Nell’ultimo tratto di strada, che usciva dalla foresta e scendeva lentamente fino a Bata, Nsue quasi non vedeva più i bordi della strada, ma sentiva solo il suono delle ruote che sprofondavano nelle pozzanghere e dei cani che abbaiavano al suo passaggio.

Bisognava ammettere la delusione. Già da quel punto, aveva detto lo zio, quando il cielo era limpido, il mare spuntava da dietro l’ultima curva come un’alba azzurra e verde, un bagliore fresco che riempiva la vista e portava l’odore del sale, ma quel giorno sembrava che il mare volesse nascondersi a Nsue, per avere osato cercarlo senza avere l’età sufficiente. Forse avevano ragione le persone che la mattina, al villaggio, lo avevano guardato male.

L’arrivo a Bata però era comunque spettacolare: dove prima la strada era un corridoio tortuoso tra la vegetazione, adesso le case cominciavano a essere sempre più numerose e belle, e piccole stradine laterali, seminascoste dagli alberi alti, lasciavano intravedere villaggi e poi quartieri che già da soli erano molto più grandi di Kukumancoc. E poi tante automobili, tante persone cariche di oggetti, manifesti di pubblicità, e negozi e colori; Nsue notava pochi bambini, forse a loro non interessava andare a vedere il mare; bambini di città, poveri ma viziati, la spiaggia a pochi metri e non volerne approfittare!

Intanto il tempo migliorava: ogni chilometro sembrava che stesse per tornare il sole, e di tanto in tanto uno spiraglio di cielo lasciava passare una luce più rassicurante.

Dentro la città, le case lasciavano spazio a veri palazzi, e al palazzo del governo e a quello della polizia, molto più grandi di quanto potesse immaginare; poi lo stadio.

La corriera si arrestò davanti allo stadio. La pioggia era quasi finita, e dal mare, che si trovava a due o tre strade di distanza, provenivano degli sbuffi che sapevano di sale. Nsue, era elettrizzato, era avvolto dall’odore e dal rumore dell’oceano, e li riconosceva pur senza mai averli sentiti prima: sarebbe scappato verso la spiaggia, senza neanche aspettare lo zio.

Invece Akuete si fermò prima a comprare i biglietti per il ritorno della sera, e a raccomandare all’autista di trattare bene gli otto anziani di Machinda; poi, trascinato da Nsue, accettò di farsi accompagnare verso la riva.

La pioggia non era più che qualche goccia sparsa, mentre il cielo ricominciava ad aprirsi, prima sull’orizzonte e poi sulla costa. Akuete si lasciava guidare dal nipote, attirato dal suono del vento che sfregava l’oceano. Dalla strada emergeva la linea ancora grigiastra dell’acqua, e fu quello il momento in cui Nsue cominciò a gridare, indicare, e strattonare, come se fosse lui l’esperto, e non lo zio.

Arrivarono alla riva proprio davanti all’Hotel Panafrica, dove la vista è la migliore di tutta Bata; il bambino era come assorbito dalla presenza di tutta quell’acqua: come nei racconti più incredibili dello zio, e si perdeva nel disegno delle onde, che cambiavano forma, che si avvicinavano come per assalirlo, e che all’ultimo momento si spegnevano sulla sabbia; perso nell’orizzonte, così piatto e diverso dall’orizzonte verde scuro e spigoloso del villaggio. Questo era blu, fluido, e a momenti sembrava infinitamente lontano, e un attimo dopo si avvicinava con la velocità delle onde più alte.

I colori cambiavano ogni istante, i raggi di sole che cominciavano ad uscire dalle ultime nuvole impertinenti aprivano il blu, il verde, l’azzurro, che trasformavano l’oceano ancora a tratti scuro in quel cielo coricato dei tanti racconti ascoltati al villaggio. Le onde si schiantavano sulla banchina davanti al Panafrica, mandando schizzi di schiuma e sale sui gabbiani e su Nsue; e lui toccava l’acqua leggera impigliata tra i capelli, l’assaggiava, e la trovava buonissima, ma poi storceva la bocca.

Akuete si godeva anche lui la vista del mare e del nipote, e il suo silenzio soddisfatto voleva far credere che tutto quello fosse quasi una sua creazione, un regalo speciale tutto per lui.

Dopo alcuni minuti di quella contemplazione, Akuete richiamò il bambino che era come incantato, e con lui seguì la costa verso nord, fino al piccolo porto dove avrebbero trovato suo fratello Mitoha. Purtroppo quello non era giorno di pesca ma di posta, così per tutto il pomeriggio i tre non fecero altro che attraversare a piedi la città da un lato all’altro, per consegnare pacchi e lettere a gente con nomi stranieri e uffici con guardiani insolenti: ne ricavarono molto fango sulle scarpe e nessuna mancia decente.

Ma per Nsue i momenti più belli erano quelli in cui dalla costa si rientrava verso le vie interne, dove il mare non si vedeva ma se ne ascoltava la voce; e come in un gioco a chi si nasconde meglio, ad ogni ritorno verso l’oceano scoppiava in un grido di sorpresa e di vittoria.

Al ritorno al villaggio Nsue aveva una certezza: tra tutti i bambini del suo villaggio l’aveva trovato per primo lui, il mare.

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Dietro lo specchio

“Dietro lo specchio grande del bagno, due; sul bordo della Jacuzzi, tre; sulla mensola blu lunga, due. Ah, già, e sul mobile basso, ancora due. Fanno otto… no, nove. Appunto. Avevo ragione io…”

Così la bella Matilde si convinceva di avere ragione. Contava i suoi flaconi di shampoo, e con tono vittorioso annunciava a se stessa che erano meno di dieci. Lei lo sapeva già, era inutile contarli, e poi gliel’aveva detto cento volte, a quell’uomo irriducibilmente razionale ed esagerato, e sporco, soprattutto sporco, del suo ex marito. Era un’accusa detta apposta per spiazzarlo.

E infatti lui, nei momenti più accesi dei litigi che non finivano mai, non sapendo più come ribattere, le gridava che lei era una maniaca della pulizia, del profumo, e persino della chimica, bastava contare le bottiglie di shampoo disseminate nel bagno, almeno dieci o quindici ! E chi poteva sapere se non ne aveva nascoste altre, in cucina, o in camera da letto!

Nove. Avrebbe dovuto contarle lui, prima di accusarmi per niente…

Solo che ormai lui era andato via. E lei non era mai riuscita a capire perché. Lei pensava, non certo per quello. Ma allora, per cosa?

E intanto, tornava a fare la conta dei suoi flaconi, come se volesse dare a loro la colpa della sua separazione. Ma poi, come per scusarsi con loro, ci ripensava. In fondo, diceva, perché non potrei averne dieci, o anche venti? Vorrà dire che dureranno di più.

Allora, come se un sospetto che non aveva calcolato stesse prendendo forma, cercava di ricordare quando li aveva comprati. Tanto tempo fa. Almeno tre o quattro anni. Alcuni, poi molto tempo prima. Poi controllava se l’uno o l’altro stessero finendo. E li ricontava, ancora una volta, aprendo e chiudendo i tappi rotondi o rettangolari, e ogni volta premendo bene, come su una spugna, per sentirne l’aroma.

Nella casa di Matilde non c’era un buon odore. Tutte quelle bottigliette, mescolando i profumi, creavano un’atmosfera calda, zuccherosa, malsana. Neanche le mosche entravano più, soffocate da vapori esotici e sentori di essenze quasi alcoliche, che si confondevano e separavano nelle varie stanze, a seconda delle leggeri correnti d’aria che raramente Matilde faceva passare.

Perché l’aveva lasciata? Seduta in bagno, vicino alla finestra sempre chiusa, Matilde contò ancora le sue bottiglie, come ogni giorno, per la quindicesima o ventesima volta. E non aveva ancora capito perché lui se ne fosse andato.

“L’avevo detto, io, neanche dieci.”

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A Laurent non era mai piaciuta la mattina

A Laurent non era mai piaciuta la mattina, e non gli era mai piaciuto andare a scuola. Almeno negli ultimi tre anni. E lui andava a scuola esattamente da tre anni.

Le cose più importanti della sua vita avvenivano di pomeriggio o di sera, e visto che la scuola restava ostinatamente un’attività della mattina, non c’era modo di fargliela piacere.

A dire il vero, un periodo eccellente c’era stato. Erano i primi giorni del primo anno, quando non conosceva nessuno e nessuno gli parlava volentieri, e così era libero di stare in silenzio, pensare ai suoi giochi, a Mireille, poi di nuovo ai suoi giochi, e soprattutto non doveva dare alle maestre opinioni su fatti e luoghi che non avevano per lui nessuna importanza.

Invece, dopo neanche una settimana, una maestra importuna cominciava già ad obbligarlo a scrivere su un quaderno una quantità di lettere, numeri, forme e colori, anche loro di nessuna importanza. Le sole cose che gli importassero erano due: i giochi, e Mireille.

I giochi lo occupavano buona parte delle sue giornate più piacevoli, mentre Mireille non la vedeva che una volta alla settimana, il giovedì sera, a cena. E forse era proprio per questo che i giovedì sera d’inverno con Mirelle, anche se brevi, anche se in compagnia di mamma, papà, e dei signori Simon, valevano molto più di tutte le ore passate a fare scontrare tra di loro macchinine di ferro, animali di pezza e soldatini di piombo.

A quelle cene, infatti, tutta la sua energia battagliera si ritirava, e lo lasciava così, scoperto, con gli occhi fissi a Mireille. E non sapeva se doveva mangiare o guardare lei, perché la mamma e la signora Simon, alternativamente, ordinavano “mangia!”, ma Mireille, silenziosamente, suggeriva “guardami”…

Una volta tornato a casa, in quei pochi minuti che gli rimanevano prima di essere messo a dormire, i giochi di Laurent cambiavano: gli animali di pezza si abbracciavano, e i soldatini di piombo salivano in silenzio sulle macchinine e si allontanavano con discrezione.

Poteva essere il momento più bello; ma ogni giovedì notte Laurent incominciava a pensare alle sette maestre e alle sette mattine che lo separavano da Mireille, e l’indomani si svegliava già arrabbiato.

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Il giorno di Pasqua del 1967

Il giorno di Pasqua del 1967, il giovane Hubert come ogni anno accompagnò la sua fidanzata Greta a prendere la comunione nella chiesa del paese.

La chiesa era molto semplice, il paese molto calmo. Sia l’una che l’altro erano piccoli, quanto bastava a una popolazione stabile di poco più di 200 persone, almeno da un secolo.

La messa di Pasqua era una tradizione per Hubert e Greta, in quanto loro, nel resto dell’anno, non partecipavano a nessuna altra funzione, neanche a quella di Natale; così, una mattina all’anno, raccoglievano tutta la loro fede, la buona volontà e anche una certa quantità di civetteria, si vestivano con i loro abiti più appariscenti, e insieme varcavano il portone consumato della chiesa.

Dovevano essere visti da tutti, ottenere sguardi di approvazione che certificassero la loro religiosità e la loro virtù, e solo così, forse, un giorno i loro genitori, consultandosi con i vecchi del paese, avrebbero acconsentito alle nozze.

Oogni anno, le donne più anziane, che passavano più tempo nella chiesa che a casa loro, si chiedevano dubbiose se a Greta, per ottenere la salvezza eterna, fosse sufficiente farsi notare così raramente dal bel Gesù; e insinuavano che col suo vestito più bello lei tentasse di impressionare il Salvatore, e magari farsi perdonare qualche peccato di troppo.

Hubert seguiva Greta di un passo, quanto bastava per guardare le sue forme mentre saliva i gradini, mentre aggiustava il vestito scomposto, e cercando di far presto trovava due posti liberi e vicino all’altare.

Erano quasi i primi ad entrare, volevano essere i primi a vedere la resurrezione: a loro era necessaria più che a tutti gli altri.

Come ogni Pasqua, finita la messa, con quel senso di purezza ancora fresco, Hubert e Greta corsero via raggianti, lontano dal paese, dopo il ruscello, dietro le colline, e si coricarono sull’erba.

A sera, la scorta di purezza di un anno era già finita.

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Lei era semplicemente una bambina

Lei era semplicemente una bambina, e lo sapeva. Sapeva che le era vietato di allontanarsi da casa anche un minuto, anche solo per avvicinarsi al pesco al di là del ruscello e giocare con le sue foglie lunghe e ruvide.

E invece avrebbe voluto, in quelle mattine vuote di luglio, andare da sola almeno fino al negozio di papà, due strade più avanti. Non era lontano: persino coi suoi passi timidi, in un attimo sarebbe spuntata davanti al bancone, all’entrata, dove i contadini ogni mattina passavano, chiedevano informazioni, pagavano e si affrettavano alle corriere. Avrebbe salutato papà, e sarebbe tornata di corsa.

Come le piaceva, nel negozio, il movimento colorato e vociante; com’era diverso dalla stupida penombra di casa! L’oscurità molesta della cucina, con la tendina della finestra ormai annerita; e l’oscurità povera della stanza grande, che era troppo vuota di giorno, quando i quattro lettini di paglia erano arrotolati vicino alla porta; e quando sul pavimento non restava che il tavolo dal legno così scuro che sembrava volesse assorbire tutta la luce che entrava della porta.

Voleva tanto uscire, ma sapeva che avrebbe potuto perdere la strada, o essere vista dalla zia Thùi, così gentile quando c’era la mamma, e così antipatica quando la vedeva correre da sola; o peggio, sarebbe potuta cadere nel torrente, e sporcarsi la faccia: come l’avrebbe nascosto, allora?

Ma il clacson della corriera che arrivava oggi aveva suonato ben tre volte, e quel suono veloce l’attirava come se la stesse chiamando, furtivamente, per nome.

Allora Mihn guardò davanti, dietro la casa, si assicurò di non essere scoperta né dalla mamma né dalla zia. Nessuno. Attraversò in due salti il torrente, poi la strada, poi la seconda strada, e arrivò in un lampo accanto alla porta del negozio.

Si stava preparando a mostrare a papà lo sguardo furbo che aveva quando finalmente riusciva a raggiungerlo, e già si immaginava la sua sorpresa; mentre riprendeva fiato e aspettava il momento migliore per entrare, trionfante, si mise ad ascoltare come sempre le voci confuse dei grandi; tra quelle dei soliti sconosciuti del negozio, una sola le sembrò più chiara: “Mia figlia Mihn, lei è prudente; non uscirebbe mai da sola, vero, Thùi?”

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Nonostante il suo nome


Nonostante il suo nome, i capelli biondi, l’aspetto più gelido delle sere taglienti di novembre, e ancora il cappotto e il cappello ex-sovietici, Olga non era di origine Russa.

Veniva da Tushig, dieci chilometri in qua del confine. Tra le montagne più inospitali, tra i fiumi senza nome, dimenticati e tortuosi. Se veramente volevi raggiungere la Russia su una vera strada, la più breve era di 150 chilometri. Olga non era Russa.

Ci teneva a farlo notare. Però, le piaceva, ogni tanto, quando un ragazzo che si credeva più esperto cominciava a chiederle di lei e della sua famiglia, rispondere un po’ sì e un po’ no, lasciare il dubbio in mezzo alle parole e agli sguardi. E si nascondeva gli occhi sotto il cappello, non li giudicava abbastanza chiari, non le avrebbero creduto.

Aveva provato, una volta, a inseguire il confine, per dire a se stessa che in fondo, qualcosa di russo le l’aveva avuto, almeno per un giorno. Ma il confine si nascondeva, si allontanava e nessuno sapeva dov’era veramente; più lei saliva, faticosamente tra l’erba sempre meno folta, più la Russia sembrava irraggiungibile.

E poi, tra le pietre, i confini non si vedono…

Su un masso quadrato, era seduto, stanco per la lunga camminata, un giovane: fumava una sigaretta piegata e mezza consumata. Il fumo del tabacco, vagamente blu, si mescolava con la nebbia ferma delle alture.

Tavka, il giovane, nonostante il nome, i capelli, l’aspetto il cappotto e il cappello, non era di origine Selenge.

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L’indomani mattina

L’indomani mattina, il sole si era svegliato prima di me.

Non succedeva spesso: solitamente già prima dell’alba il suono della strada, dei pochi uccelli rimasti nei dintorni, o del vicino che si alzava per primo nel palazzo, interrompeva il mio sonno debole.

Non era stato sempre così. Fino ai 50 anni dormivo bene. E più ancora nel periodo del lavoro duro, alla fabbrica di lampadine. Filamenti e bulbi, così leggeri ma tanto numerosi.

Mi sentivo sazio, andavo a letto e aspettavo con attenzione l’arrivo del sonno. Era un appuntamento con un amico; meglio, con un complice. Senza parola d’ordine, mi facevo prendere, e sparivo per chissà quanto tempo.

Adesso, dopo che i miei occhi si sono spenti, come candele soffocate, non ho più bisogno di quel tipo riposo che tu libera dai sospetti e dai timori velati.

Quando da giovane mio nonno mi raccontava delle sue notti insonni io non gli credevo. La vecchiaia, diceva, ti toglie il desiderio di dormire; e se non ti togli e il desiderio, ti togli la forza di dormire.

E io, scettico, “la forza di dormire?”. La forza, sì, il coraggio. Di addormentarti, una delle ultime volte, o magari – chi può rassicurarti davvero? – l’ultima.

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Io odio il martedì

Io odio il martedì.

Non sopporto il risveglio ondulante dopo le lunghe nottate del lunedì, passate a bere, anzi a inghiottire, birra prima ghiacciata, poi a poco a poco sempre meno fredda, quindi disgustosamente tiepida, e infine calda, calda come le notti acide e piene di zanzare del fiume Li.

Il lunedì sera è il momento della paga, qui. Bisogna approfittare.

Ci riuniamo, io e i miei tre amici, davanti alla casa di Menglu, il piccolo. Lui è quasi sempre il primo a bere, e sempre il primo ad addormentarsi, troppo tardi per un ragazzo di 14 anni, e troppo presto per un barcaiolo di professione.

Menglu ci saluta col suo solito grugnito di sfida, come se volesse resistere anche soltanto per vedere chi resta sveglio più a lungo. Si corica. Più onesto dire che sviene sul bambù umido di alghe. E noi passiamo davanti alla baracca di Xiulang, direttamente sul fiume, dove i bufali, passando ogni giorno, lasciano fanghi e puzze sempre uguali.

Lui, dopo neanche mezz’ora, si addormenta sul terreno, a un metro dalla riva: non è che non senta il bagnato avvicinarsi ed entrare nei vestiti, ma è convinto che un uomo non può rinunciare all’onore di bere fino allo sfinimento. E che importa se l’indomani mattina sarà la nonna a trovarlo, nascosto tra l’erba e le mosche.

Ogni volta restiamo solo io e Baifei.

Senza parlare ci stendiamo sulle barche. Gli ultimi sorsi di birra, con gli occhi già chiusi, scivolano nel fiume.

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Tu non mi conoscevi

Tu non mi conoscevi, quando eravamo pochi. Quando l’universo arrivava lontano, quando oltre il bordo c’era l’infinito, e dopo l’infinito un altro bordo. Quando cercarsi era un atto d’amore o di sfida, e trovarsi era la fortuna per la vita o l’ultima impressione prima della fine.

Allora anche il tempo non aveva senso, e il giorno e la sera, parole inventate da altri, sembravano come i nomi di paesi lontani, che non conosci, non ricordi, e in fondo sospetti che non esistano. La luce che passava non si fermava, non rifletteva, ma si scioglieva e scompariva, un suono discreto e leggero.

Quando eravamo pochi il pensiero non era complesso, e la verità non valeva molto.

Parlare non era rivelare; tacere non era prudenza. E i segreti, segreti della notte, segreti che ora non si dicono per non farli realizzare, e che quasi non si pensano, per troppo sospetto, i segreti avevano un suono sibilante, rumore di ghiaia che si mescola, come lunghi ragionamenti.