Categorie
Fotografica Racconti

Il senso del viaggio

Il senso del viaggio

(陈绮贞:旅行的意义)

Seduto sul gradino più alto del vagone, con un piede poggiato sul marciapiede del tutto vuoto e l’altro sospeso e dondolante sotto il treno, Serge guardava verso i binari lucidi e le traversine di legno irregolari e nere. I movimenti ondulanti del suo piede coprivano e scoprivano sigarette mezze consumate, bicchieri di plastica schiacciati, fili d’erba anneriti da grasso, olio e liquami mescolati, e alcuni fiori grigi e piccolissimi, intimiditi dal treno sovrastante, abituati a essere guardati distrattamente e senza nessuna considerazione.

Un vento irregolare e importuno faceva cigolare l’insegna con il nome della stazione, e quel rumore metallico e intermittente si spargeva distratto nell’aria.

Serge seguiva distrattamente il movimento del suo piede, che barcollava nell’aria in cerchi deformati, come quelli che forma una farfalla la notte attorno a una lampada; e anche lui non pensava a niente, assorto in quel movimento controllato e ritmico ma senza significato. Era più di un’ora che il suo treno era fermo a Kamyshlov. Quando lui fino a un’ora prima non sapeva quasi neanche che esistesse, Kamyshlov. Erano le quattro e trentasette del mattino. O almeno questa era l’opinione di un orologio a muro dal vetro convesso e le lancette pesanti e spigolose, vecchio di più di vent’anni, che sembrava dare ancora l’ora di Mosca, come se in quel posto dimenticato, sugli orari dei treni notturni valessero ancora le vecchie regole sovietiche.

Era dalle tre e mezza che il treno si era fermato, apparentemente senza motivo, in una stazione che di solito non veniva neanche nominata; i passeggeri tutte le altre volte dormivano, e non si accorgevano neanche delle luci delle città maggiori che si avvicinavano, si mostravano e poi si allontanavano. E questo era solo un borgo che appariva, per pochi attimi, solo nel dormiveglia di qualche passeggero troppo ubriaco per ricordarsene l’indomani.

Invece, questa volta, il treno, trovandosi solo in una nebbia opaca e insignificante, senza una vera ragione, o forse solo come se volesse riposarsi per riflettere meglio sulla strada da fare e per orientarsi meglio, cominciò a rallentare per poi lentamente fermarsi nella stazione di Kamyshlov.

Serge riusciva ad addormentarsi anche se c’era altra gente con lui nello scompartimento; ma quella notte purtroppo era circondato da tre ucraini, di almeno sessant’anni ciascuno, per un totale di quasi due secoli. Lui era infastidito più dal loro accento che dal loro alito alcolico, il primo essendo ben più pesante del secondo. Quando i tre, dopo rumorose partite a carte, si addormentarono, erano almeno le due del mattino, l’ora giusta per lamentarsi tra di loro dei viaggi troppo lunghi, per una bestemmia astrusa sulle notti siberiane, e per perdere ancora sonno. Sentendo il treno rallentare, Serge, che aveva appena provato a chiudere gli occhi, li riaprì, prima uno solo poi l’altro, sperando che la sua fosse solo una sensazione. Dopotutto il viaggio era già abbastanza lungo per poter desiderare altre fermate, e se solo avesse potuto dormire ancora un’altra ora forse non avrebbe sentito la lunghezza della notte. Invece il treno cominciò a scivolare sui binari rallentando quasi senza rumore, come una nave in lontananza taglia l’acqua e non forma schiuma, fino a fermarsi, come se avesse naturalmente esaurito la sua spinta, al centro della stazione.

Dopo qualche minuto, nonostante tutti dormissero e che quindi potesse essere pericoloso lasciare l’entrata libera ai ladri dell’altopiano, qualcuno aprì le porte. Era stato il controllore: anche solo cambiare l’aria era un buon motivo, doveva avere pensato. Lei era Agnetska, una ragazza di una ventina d’anni, appena assunta, che non aveva ancora sviluppato la stessa resistenza delle sue colleghe più mature alla puzza cangiante di vodka russa, fumo mongolo, e piedi polacchi e cinesi. Aveva aperto una sola porta, quella vicino al suo piccolo scompartimento di servizio, aveva respirato due boccate d’aria gelida, e furtivamente era tornata al suo lettino. Se il capotreno l’avesse vista aprire le porte senza permesso e restare sui gradini con l’aria di voler fare la sentinella e comandare il treno, l’avrebbe rimproverata, o persino scritto un rapporto negativo su di lei: e allora chissà quando avrebbe potuto chiedere ai superiori un avanzamento di grado, o almeno il permesso di non fare i turni di notte!

Lo scompartimento di Serge si trovava a pochi metri dalla porta aperta. Era bastato il rumore pesante degli ingranaggi della porta e di metalli che si scontrano, per farlo alzare definitivamente dalla brandina. Un contrattempo, immaginò, un guasto, o un appuntamento del macchinista con una delle sue amanti sparse tra Mosca e Ulaan Bataar. Serge sapeva abbastanza bene che i cambi dei macchinisti sui treni di lunga percorrenza non si stabilivano in base alle ore di lavoro, ma in funzione di dove si trovavano le loro amanti. Doveva essere quello il motivo della sosta, perché tutto il personale del treno, nonostante la fermata non fosse prevista, non si mosse dal suo posto, come se fosse stato avvertito; forse entro mezz’ora si sarebbe ripartiti; e forse nessun viaggiatore avrebbe notato il ritardo.

Invece Serge si era già alzato, e con un passo barcollante dal sonno aveva raggiunto l’estremità del vagone, in cerca di qualcuno che ne sapesse più di lui. Lui aveva già notato Agnetska qualche ora prima, quando lei era salita alla stazione di Omsk. L’aveva osservata brevemente ed aveva concluso che era giovane, bella, che era apparentemente seria e ben educata, probabilmente non sposata, e non era escluso che non fosse disponibile a conoscere un ragazzo come lui. Lui era ragionevolmente convinto di essere ancora giovane e bello, era innegabilmente serio e ben educato, con tutta certezza non si considerava più sposato, e non era escluso che non fosse disponibile a conoscere una ragazza come lei. Serge non era solito interessarsi delle altre ragazze, il matrimonio gli era già sembrato troppo; ma ogni tanto si fermava a immaginarsi accanto a una sconosciuta, in mezzo a vite che non sapeva, in territori vaghi e oscillanti. Ma quella notte, il troppo sonno e l’aria alcolica, e soprattutto l’indecisione e pensiero di dover probabilmente incontrare sua moglie dopo pochi minuti, lasciavano a Serge ben poco dell’umore adatto a parlare con una persona qualunque. Sarebbe apparso invecchiato e sciupato, evidentemente troppo galante o molesto, il tipico divorziato in cerca di storie facili.

Arrivato alla fine del corridoio buio, orientandosi solo con le luci che venivano da fuori, Serge si aspettava di trovare il controllore o comunque un ufficiale del treno a presidiare la porta come Agnetska. Invece la porta sembrava essersi aperta da sola, su una stazione completamente vuota, su una banchina piatta, lurida e insignificante, che non invitava minimamente il viaggiatore a scendere dal treno, neanche quando questo era l’ancora più sporco 067 Ы di Novosibirsk.

Così Serge, troppo stanco per cercare veramente una spiegazione o qualcuno che potesse dargliela, dopo essere rimasto qualche minuto in piedi a guardare il nulla, e dopo essersi finalmente reso conto di trovarsi a Kamyshlov, si sedette sul gradino più vicino a lui, e cominciò a fissare il corso dei binari, senza voler pensare a nient’altro. Cercò di calcolare quanto tempo ci volesse per arrivare Ekaterinburg, ma non riusciva a concentrarsi neanche per un attimo, per schivando istintivamente il momento in cui avrebbe deciso se scendere. Dopotutto, poteva fermarsi là, in un posto qualunque, e prima o poi ripartire, come aveva fatto senza sosta negli ultimi mesi.

Da quando i viaggi erano diventati troppi e si fondevano in un vagare continuo, Serge aveva cominciato a perdere il senso del tempo e dell’orientamento, in mezzo a neve sconfinata, alberi e foreste, e città sconosciute, e persone conosciute un attimo e poi dimenticate. Durante le notti in treno, quando tra una sosta e l’altra il tempo sembrava oscillante e ostile come il vagone che lo trascinava a forza verso luoghi di cui scopriva il nome autentico solo dopo esserci arrivato e sfuggiva appena fuori dalla stazione, Serge, che aveva smesso di incuriosirsi al suo lavoro, cercava di convincersi che quel viaggio fosse l’ultimo, ogni volta l’ultimo, irripetibile; una tentazione che sentiva più acuta quando ripassava furtivamente da Ekaterinburg, meglio se di notte, per non riconoscere la sua città, il suo cielo piatto; ma poi ripartiva, continuava, spariva dietro l’orizzonte inglobato nel suono metallico e duro di rotaie ghiacciate.

Non era lui che aveva scelto consapevolmente di viaggiare così spesso. Lui, all’inizio, voleva soltanto non dover passare tutta la vita a Ekaterinburg, come Andrej, il suo ex compagno di scuola, e ormai anche ex amico, che era invece persino troppo attaccato alla città.

Andrej, sin dall’età della scuola, quando molti compagni, fantasticando sulla loro vita da adulti, immaginavano di andare a vivere un giorno nelle città famose e vivaci che mese dopo mese scoprivano studiando, Mosca, Leningrado, Kiev, e poi Pechino, Canton, L’Avana, e poi ancora New York, Washington, Londra, Parigi, ripeteva con caparbietà e un orgoglio velato di isprezzo che lui non aveva di questi sogni stupidi, che era nato a Ekaterinburg, là voleva passare tutta la vita e morire. Di solito, i compagni più grandi ridevano di lui, come di una lumaca che sceglie di vivere tutta la vita rannicchiata dentro la sua chiocciola, e muore senza neanche sapere come sono buone le erbette mezze secche, due metri più in là.

Erano tanti i conoscenti di Serge che in un modo forse meno ingenuo, o più opportunista, la pensavano allo stesso modo. Dopotutto, cosa mancava, a Ekaterinburg? La città era grande, ricca, antica, simbolica, dappertutto era ricordato che segnava il confine tra Asia e Europa: una vera capitale. Non mancavano i divertimenti, le donne erano belle e maliziose, e farsi una carriera era abbastanza facile, se solo, appunto, si accettava di vivere isolati dal resto del mondo per molti mesi all’anno, e nell’indifferenza totale del resto del mondo tutto il resto dell’anno. I ragazzini consideravano la squadra di calcio locale come la più forte in almeno tremila chilometri tutto intorno e, in effetti, non avevano torto.

Restare o partire era però la domanda che tutti si ponevano in un periodo della vita, forse per colpa di troppe aspettative riguardo al mondo esteriore, o forse semplicemente per noia. Anche se alla fine, comunque, non molti accettavano di lasciare le comodità della casa, l’insostituibile cucina dello Sverdlovsk, e la fidanzatina appena conquistata, per finire in città lontane ma sconosciute, o peggio ancora, nelle cittadine conosciute e disprezzate della Siberia Interiore.

Solo che Serge, nonostante il desiderio di allontanarsi da quel posto troppo lontano, dopo la laurea in diritto internazionale, che nelle sue intenzioni poteva aiutarlo a cercare un lavoro qualunque a Mosca, aveva iniziato a vedersi con una studentessa di economia internazionale che si pagava gli studi facendo la ragioniera nello studio di un notaio sull’Akademicheskaya Ulitsa. Serge e Monika, se non si fossero incontrati e piaciuti così presto, avrebbero sicuramente entrambi approfittato della prima occasione possibile per scappare da Ekaterinburg, per finire a Mosca o a San Pietroburgo, dove, specialmente dopo il ritorno del nome tradizionale, si respirava un’aria di rinnovamento e di vita sconosciuta fino a pochi anni prima nelle zone sconfinate e monotone che dormivano alle spalle degli Urali. Sarebbero stati amici, o soci, o colleghi. Avrebbero lavorato insieme. Invece, dopo poche settimane dal primo incontro nello studio del notaio, Serge non si era accorto di avere già iniziato, oltre alla carriera di avvocato, quella di marito: lui era giovane, lei era bella, l’inverno noioso, e nel marzo seguente, dopo cinque mesi di fidanzamento, l’ufficio di stato civile di Ekaterinburg riceveva la notifica di un nuovo matrimonio. Marito: Serge Balanowsky, età 33 anni, professione Avvocato; Moglie: Monika Severova, età 33 anni, professione Contabile; luogo di residenza, Ekaterinburg, Ulitsa Lenina48.

La cerimonia era stata breve, e in effetti breve fu anche la loro vita da marito e moglie. Il viaggio di nozze era durato meno di una settimana, tutta passata nella incomprensibile città di Astana: non ne sarebbe valsa davvero la pena, se non fosse stato che il solo fatto di trovarsi nel Kazakhstan dava loro l’impressione di viaggiare in chissà quale paese esotico. Al ritorno nella casa fredda e ancora quasi vuota, trovarono una lettera che doveva essere arrivata diversi giorni prima, perché era piuttosto umida e rigida. La comunicazione di un incarico immediato a Mosca.

Serge, in pochi minuti, senza neanche disfare il bagaglio del viaggio di nozze, cercò gli occhi di Monika. Occhi distanti. Non se lo erano mai detto prima, ma il progetto di lavorare insieme voleva dire prima di tutto creare e costruire insieme la loro via di fuga. Altrimenti sarebbe stato meglio non essersi sposati, e cercare la fortuna soli, lontani, in altri continenti. Troppo tardi. Il solo a partire sarebbe stato lui. Il matrimonio, in pratica, era già finito.

In pochi giorni l’orizzonte minimo e rassicurante di Ekaterinburg fu sostituito da quello complesso e imprevisto di un gigantesco studio legale in Turgenevskaya Ploshchad’, un nome fino a pochi giorni prima conosciuto solo dai film e dalla televisione, e che invece sembrava che stesse per diventare il centro della sua nuova vita.

Il direttore era un anziano giudice originario di Revda, ormai in pensione, che aveva conosciuto il padre di Serge dai tempi di Khruscev, quando per molti anni si erano ritrovati ad abitare insieme in uno dei nuovi palazzi che il governo aveva fatto costruire in quantità illimitate attorno alla vecchia città. Il giudice, Arkady Gredin, subito dopo la pensione aveva fondato questo studio a Mosca grazie all’aiuto di sue vecchie amicizie. Anche se in realtà erano stati proprio i suoi amici di un tempo, di quando i giudici venivano pagati a buon prezzo e offrivano buoni servigi, che avevano insistito per aprirgli uno studio legale in centro a Mosca, contando sulle complicità ancora solide tra Gredin e i soliti nomi importanti al Cremlino. Lo studio si sarebbe occupato di affari minerari, un ambito in cui i problemi sono più grandi e numerosi dei camion che trasportano carbone, ferro e oro dalle lontane Siberie ai centri vivi del Paese.

Gredin aveva stabilito un’amicizia sincera con il padre di Serge, e non appena fu possibile, più in nome dei vecchi rapporti di buon vicinato che della reale stima per il giovane avvocato, di cui l’ultimo ricordo era di almeno dieci anni prima, chiamò il ragazzo a lavorare per lui. Serge accettò il posto senza sapere bene se il merito fosse suo, di suo padre o di Gredin; ma l’unica persona che poteva ringraziare al momento era il giudice, dal momento che, a parte lui non si sarebbe complimentato affatto con se stesso, e in ogni caso suo padre era morto.

Lo studio era ampio, e vi si entrava da un palazzo monumentale appena sopra alla centrale fermata della metropolitana Turgenevskaya. Non c’era modo di vederla, questa, come una vera comodità, perché la piccola stanza che sarebbe servita da camera da letto si trovava nello stesso stabile dello studio, e poi, almeno nei primi tempi della sua permanenza a Mosca, l’altra unica destinazione di Serge era la stazione Yaroslavsky, che si trovava comunque a pochi minuti a piedi dallo studio.

Nonostante l’attesa di anni, nonostante, la separazione desiderata e volentieri affrettata da Ekaterinburg, nonostante la lontananza da Monika fosse inizialmente sopportabile grazie alle telefonate dallo studio, e nonostante finalmente potesse avere la sua prima occasione di sentirsi uomo e lavoratore in una città emozionante di giorno e splendida di notte, Serge non riusciva ad abituarsi alla sua piccola e anonima stanzetta. E la vista su un angolo del parco di Chistyy Prud, che chiunque altro al suo posto avrebbe immediatamente sfruttato per invitarvi le belle ragazze moscovite, non gli sembrava utile se non a guardare in direzione della sua vecchia e lontanissima Ekaterinburg. Pur senza ammettere a se stesso che adesso gli mancava la sua città, Serge guardava volentieri verso est, prima dell’alba.

Così, ogni volta che era possibile, una volta al mese, il quarto venerdì pomeriggio, appena dopo la chiusura della pesante porta dello studio, Serge, con l’aria di chi avesse dimenticato di comprare una medicina urgente, correva senza bagaglio verso la stazione, per saltare sul treno pochi minuti dopo. Viaggiava in cuccetta, la sistemazione che riteneva la più adatta a lui, più per necessità che per orgoglio: perché ogni volta che comprava il biglietto, riposato, faceva finta di non ricordare come si sarebbe sentito ventotto ore dopo, all’arrivo.

Il viaggio, in direzione Ekaterinburg, iniziava sempre con lunghi minuti di litigio per il posto, anche se alla fine, una volta disteso, e appoggiate le gambe sui pacchi dei compagno di viaggio, che occupavano anche parte del suo spazio, Serge si addormentava per delle lunghe ore, per svegliarsi già dalle parti di Nizhny Novgorod. A quel punto la conversazione, che si era interrotta dopo le trattative sulla sistemazione dei bagagli, si riaccendeva per alcuni minuti sulla rabbiosa disputa sui nome delle città. Serge, che pur non essendo stato comunista, quando viaggiava verso casa era pervaso da sentimenti nostalgici universali, argomentava con calore che era meglio quando, fino ancora a pochi anni prima, la città si chiamava Gorky. E anche Ekaterinburg, nei momenti in cui ne andava più fiero, riacquistava per lui il gagliardo nome di Sverdlovsk.

Ma d’altra parte, un nome o un altro erano indifferenti, perché tanto nessuno di loro vedeva delle città che incontravano se non i cartelli delle stazioni e i venditori d’acqua che per dieci minuti si affollavano davanti ai finestrini; questi a volte erano così appannati che neancheci si ricordava di aprirli, tanto che per sapere in quale città si fosse arrivati bisognava consultare il pannello appeso vicino ai gabinetti. Serge provava a dormire il più possibile, per cercare di restare sveglio il più possibile quando sarebbe arrivato a casa.

Quando andava bene, Serge restava a casa la sera del sabato e l’intera giornata di domenica, quando già era l’ora di ripartire per Mosca, calcolando di arrivare il lunedì sera, e di farsi perdonare con degli straordinari durante gli altri giorni il ritardo sull’inizio della settimana.

Il tempo con Monika era prezioso, e i due lo passavano interamente insieme. Sin dall’arrivo alla stazione, si tenevano per mano, sentendo di essere tutto sommato ancora due sposini, e calcolando che, nonostante fossero passati già diversi mesi dal matrimonio, il tempo trascorso davvero insieme li autorizzava a farli considerare ancora nel tempo dorato della luna di miele. Una volta a casa, dopo una cena essenziale, che doveva lasciare spazio a un tipo di fame più appassionata e più insaziabile, dormivano abbracciati, tutta la notte, guancia contro guancia. L’indomani mattina si lavavano insieme, preparavano da mangiare insieme, e Serge ogni volta stupiva Monika per le ricette moscovite e ucraine che aveva imparato stando a Mosca, e per i modi di parlare, eleganti o triviali, che a volte, in ufficio, scambiava con i colleghi o i clienti.

Dopo le prime volte, trovando questi ritorni troppo veloci, Monika escogitò il modo di aumentare il tempo per restare insieme a Serge, andandogli incontro prima del suo arrivo fino alla stazione di Druzhinino e riaccompagnandolo ancora una volta là prima che il treno per Mosca si perdesse negli sconfinati altopiani tra Krasnoufimsk e Kazan. La stazione di Druzhinino, un luogo desolato, più grande del paesino di cui portava il nome, era riempita nei suoi binari morti da lunghi treni merci arrugginiti e apparentemente abbandonati. E quando il treno per Mosca ripartiva, Monika rimaneva sola sulla banchina, sotto il cielo, spiata dalla solita coppia dei venditori di birra che non capivano come mai una donna sola potesse scendere dal treno in quella stazione, piangere per mezz’ora finché non passava il treno per Ekaterinburg, salirci, e scomparire fino al mese successivo.

A Mosca il lavoro di Serge non era poi così interessante, si trattava soprattutto di raccogliere e mettere in ordine le documentazioni delle prove favorevoli ai clienti dello studio, carteggi che provenivano da ogni parte della Russia. Di tanto in tanto, Gredin mandava Serge personalmente a controllare nei vari uffici giudiziari della capitale l’avanzata di alcune pratiche. Non è che davvero Gredin fosse convinto delle qualità di Serge; e non è che Serge poi si stesse impegnando tanto in quel lavoro. Così, un giorno, il vecchio giudice trovò un modo per allontanare Serge mantenendo la gratitudine alla memoria del padre. Avrebbe mandato il ragazzo personalmente a cercare e a sollecitare i documenti nelle città dei suoi clienti. Così, la prima volta Serge fu mandato a Vladimir, a duecento chilometri da Mosca. Il treno era lento, e ci mise più di tre ore. Serge passò a Vladimir tre giorni, e non vide nient’altro che la sede locale di un’industria mineraria diffusa su tutta la Russia. Là, per la prima volta, sentì parlare di posti veramente lontani: una segretaria con la pelle chiarissima e i tratti orientali diceva di venire da Ossora, un posto che per i russi occidentali era davvero ai confini dell’universo. Serge, capendo dai tratti e dall’espressione del viso della ragazza quanto fosse distante questa Ossora, si stupì vistosamente, senza avere affatto capito dove mai fosse un posto dal nome così sospettosamente esotico.

Serge tornò presto da Vladimir, con un bel fascicolo in mano, qualche storiella da raccontare a Gredin, e due parole da dire anche a Monika. Sembrava essersi divertito, aveva conosciuto gente interessante, e aveva viaggiato in posti che prima non conosceva. Sempre meglio che stare per settimane intere rinchiuso nello stesso palazzo a Mosca. Forse, pensava, Mosca è più attraente per chi se la sa godere, per chi conosce degli stranieri, inglesi, tedeschi, per chi ha soldi da spendere in vestiti e divertimenti alla moda. Per chi ha una ragazza, o più di una… Lui non era interessato ai soldi, anche se poteva dire che non gliene mancassero. Inoltre, se si escludono i viaggi a casa, non aveva quasi altre spese, perché anche l’affitto della stanza era a carico dello studio del giudice.

Serge cominciava a ridimensionare l’ammirazione che aveva avuto per Mosca quando era ragazzo; probabilmente, si convinceva, alla televisione si vede meglio. Anche se soprattutto gli mancava non potere uscire la sera con Monika, mostrarle i posti più famosi di Mosca che lui ormai comunque conosceva bene, passeggiare tra i raffinati negozi francesi e italiani, o farla spaventare raccontandole dei quartieri tremendi vicino alla Begovaya, dove i rapitori bielorussi afferravano le ragazze della provincia inesperte, e chi lo sa che cosa ne facevano.

Ma poco a poco, la lontananza da Ekaterinburg e Monika cominciava a diventare una parte abituale della sua vita, una cosa normale, fino a quando una sera, dopo una giornata di lavoro e di pioggia ininterrotti, che gli avevano impedito di trovare il tempo e l’umore giusto per chiamare Monika, Serge uscì per fare una passeggiata, sulle strade ghiacciate e lucide, e senza fermarsi e quasi senza pensare arrivò fino alla Galeria Tretyakovskaya, senza avere pensato nemmeno una volta a sua moglie. Lui stesso non si stupì, o più precisamente si sorprese del non essere stupito: sebbene spesso gli capitasse di camminare senza meta in città, ogni volta fino ad allora aveva visitato i posti come se li stesse esaminando e valutando per farli un giorno vedere a Monika, trovando il percorso migliore e più spettacolare, o cercando le parole che meglio descrivessero quello che vedeva. Invece quella volta, pur dopo aver camminato quasi un’ora in una delle zone più affascinanti del centro, e avere visto per l’ennesima volta dei monumenti celebri ed effettivamente magnifici, si ritrovò con un vuoto del tutto silenzioso in testa, che gli faceva sembrare la camminata come una promenade tra immagini fisse e senza vita, in cui palazzi e volti reali avevano la fissità di quadri posati a terra in disordine prima di un’esposizione, un viaggio inesistente e senza senso tra luci e voci disorganizzate.

Era la prima volta che Serge notava con tanta certezza la sua totale estraneità a quei luoghi: fino a poco tempo prima, quando ogni tanto la sera girava tra le strade affollate del centro, si figurava di essere un vero moscovita, di conoscere le strade meno frequentate, le chiese straniere, e i palazzi abbandonati che avevano ospitato per decenni le vecchie delegazioni dei Paesi della ormai invisibile Unione Sovietica; e quando capitava che un forestiero o un vero turista gli chiedesse delle indicazioni, chi per la Piazza Rossa chi per la stazione Kursky, andava fiero della sua tutta nuova capacità di rispondere senza esitazioni. Non avendo amici che camminassero con lui, Serge non poteva vantarsi che con se stesso, cercando conferme negli sguardi soddisfatti dei suoi interlocutori.

Quella sera, invece, dopo avere camminato per ore tra le stradine spoglie di Pyatnitskaya dove l’orgoglio russo, in mancanza di una bellezza autentica, poteva solo fondarsi sul senso di appartenenza al Paese, Serge si sentì invece un estraneo, meno di un turista e meno anche di un semplice emigrato dagli Urali, che pure in quel quartiere non doveva certo essere una rarità. Forse il fatto di avere raggiunto il suo obiettivo – andare a Mosca – troppo in fretta e senza una sua vera partecipazione gli aveva fatto perdere interesse nel resto del suo lavoro e della sua vita in un posto che, se solo lui avesse voluto viverlo con più attenzione, sarebbe potuto essere un vero paradiso. Ora invece anche l’immagine e la voce di Monika sembravano essere diventate soltanto proiezioni della memoria, immagini trasparenti come di un sogno, come di una fissazione senza legami con la realtà.

La sera era fredda, i pochi giorni di novembre in cui la temperatura saliva sopra lo zero erano passati, e adesso l’acqua delle pozzanghere ghiacciava dopo pochi minuti. Serge, cominciò ad osservarsi, aveva le mani gelate, e non se ne era accorto. Per tornare a casa attraversò solo strade principali, non per arrivare prima, ma per sentire meglio che non era solo, in mezzo a molti milioni di totali sconosciuti.

Era un venerdì sera. Serge non aveva chiesto di tornare a casa; prima di tutto non l’aveva chiesto a Monika, perché prima ancora non l’aveva chiesto a se stesso. Per una volta sarebbe rimasto a Mosca anche il quarto fine settimana. Monika, lei, probabilmente non gli avrebbe chiesto spiegazioni, si era anche lei abituata a un marito che restava per poche ore. Essere sposati si era ridotto a essere soltanto un esercizio della mente.

Serge cominciò allora ad accettare le proposte che Gredin, ancora più contento di lui, gli faceva sempre più spesso. Così viaggiare passò da un’occasione a lungo progettata e quasi segreta di rivedere la sua Monika a un diversivo rispetto alle giornate in ufficio, e infine a un’abitudine quasi settimanale.

I viaggi, inizialmente di uno o due giorni, poi diventarono più lunghi e lontani. Se nei primi tempi non lo allontanavano più di qualche centinaio di chilometri, dopo qualche settimana si fecero sempre più lunghi e lenti. Serge vide le città più famose della Russia: la linea transiberiana diventò un percorso conosciuto fino a OmskNovosibirsk, poi Krasnoyarsk, e poi una volta, persino a Vladivostok, l’unico posto per il quale gli era stato concesso di prendere l’aereo. E verso Nord, Arkangel’skDudinka, e nomi e posti che neanche i capotreni conoscevano. Lui viaggiava, ma non spaventato né affascinato dalla distanza: stava solo lavorando, e cento o mille o cinquemila chilometri erano solo somme di percorsi, accumulati come la neve, gli uni sugli altri. Una volta sarebbe dovuto andare ad Astana, ma il ghiaccio aveva bloccato i binari appena fuori Samara. Peccato; durante il viaggio di nozze gli era sembrata così bella, che ci sarebbe ritornato volentieri una nuova volta. Ad ogni città nuova che vedeva, Serge immaginava come sarebbe stato se ci avesse abitato a lungo, rassicurato dal fatto che comunque, per fortuna, la sua casa si trovava indiscutibilmente nel centro di Mosca. Una casa che però era diventata un rifugio saltuario, e nella quale si sentiva di troppo, pur abitandoci da solo.

C’erano città che vedeva una sola volta, e che dimenticava una volta ritirati i suoi documenti.

Vladimir, invece, era una destinazione consueta. Eppure, così come la prima volta, neanche in seguito Serge riuscì ad interessarsi della città, e se arrivò a conoscerla tutto sommato abbastanza bene era solo perché ne aveva parlato innumerevoli volte con i compagni di treno che ci andavano per turismo, e che non capivano la sua ostinata indifferenza di fronte alla Porta d’oro e alla Cattedrale dell’Assunzione.

A dire il vero, dopo quel primo periodo in cui si era accorto che poteva vivere perfettamente senza Monika, Serge, metà spaventato da se stesso, metà pentito, cominciò a cercare di sfruttare i viaggi in direzione est per allungare di un poco il percorso e, quando era fortunato, tornare a casa per qualche ora. Quando arrivava, però, nonostante la momentanea emozione di ritrovarsi nella sua città, tra le strade che conosceva senza bisogno di osservare, e la simulata felicità di riabbracciare Monika, sentiva intimamente di non essere più suo marito, ma quasi un amante lunatico, e per tutto il giorno stava in agitazione, come se il tempo a disposizione fosse più breve di quello reale, o come se inconsapevolmente sapesse che la sua presenza, invece di essere benvenuta, era importuna, e come se in effetti stesse turbando la monotona vita provinciale di Monika; un giorno, senza neanche provare gelosia, cercò di immaginare come avrebbe reagito se avesse scoperto che lei, nel frattempo, aveva un altro.

E queste sensazioni altalenanti durarono finché, come lui stesso già intuiva che sarebbe successo, si ritrovò a passare da Ekaterinburg senza sentire il desiderio di fermarsi almeno qualche ora, e lasciando che il treno stazionasse anche a lungo, senza neanche provare a scendere per prendere una boccata d’aria. Anzi, dopo le prime volte che era passato di là la notte, quando i treni corrono e si fermano solo pochi minuti, aveva imparato a non guardare dal finestrino, a non pensare più ad appartenere a nessuno né a nessun posto, e di spostarsi con lo stesso peso di un vagone di treno, trasportato, guidato, frenato, depositato.

Con la stessa noncuranza Serge si sforzò di vincere la su innata diffidenza dagli estranei e finalmente a dormire nelle cuccette la notte, come era naturale, invece che il giorno, come aveva sempre fatto nei suoi primi viaggi verso casa. E, ormai che si era assuefatto ai percorsi bianchi, infiniti e dritti delle steppe centrali, imparò anche a disinteressarsi del tutto alle città, alle foreste, ai luoghi, ai dialetti fastidiosi dei compagni di viaggio e agli odori di cibo preparato e pronto da comprare che ad ogni stazione entrava forzatamente dalle finestre del treno in sosta.

Quella sera, dopo tanto tempo, sapendo che sarebbe passato da Ekaterinburg, decise che forse si sarebbe fermato a salutare Monika. Forse le avrebbe fatto una sorpresa, per la prima volta. Lui non voleva avvertirla, anche se il suo non era affatto il desiderio di farle una sorpresa, quanto l’incertezza di non avere ancora deciso se davvero fermarsi o no da lei, sulla via del ritorno a Mosca. Avrebbe deciso, probabilmente, se se ne fosse ricordato, se ne fosse valsa la pena, solo all’ingresso nella sua vecchia città.

Stava tornando da una missione a Karmakla, nella terra dei laghi, e si sentiva ancora innervosito da l suo cliente, un grossista di antracite che in un processo che avrebbe dovuto essere semplice si era invece fatto condannare a risarcire dei concorrenti, solo perché non aveva voluto fidarsi di lui, così giovane e provinciale, e che avrebbe preteso di farsi difendere direttamente da Gredin. Non era raro infatti che le missioni di Serge, che in teoria avrebbe semplicemente dovuto portare o ottenere documenti, finivano per prolungarsi, e obbligarlo a partecipare come avvocato esterno ai processi dei clienti dello studio. In quei casi, che pure dovevano essere sentiti come intoppi, Serge ritrovava la sua energia e si teneva in allenamento per quella che originariamente doveva essere la sua vera professione, l’avvocato. Ma capitava che i clienti non si fidassero di lui, senza spiegargli che il suo difetto non era l’età giovane, e neanche il nome, ma la mancanza di amicizie giuste. E se ad ogni viaggio le sue conoscenze di legge aumentavano, quelle delle cosiddette persone giuste diminuivano, visto che non era raro che qualche vecchio cliente di Gredin finisse per trovarsi un nuovo legale.

Il suo treno era partito dalla minuscola stazione di Chany alle tre del pomeriggio. Già a quell’orario, in inverno, non c’era modo di rendersi conto di quanto fosse brutta la stazione, con quel colore verde stinto e neanche due metri di pensilina per ripararsi dalla pioggia. La banchina era rumorosa, il vento soffiava attraverso i numerosi tralicci dell’elettricità, e il sibilo ondeggiante faceva pensare a Serge al rumore dell’acqua che in autunni iniziava a gelare sul lago Gorodskoy nel centro di Ekaterinburg, e a quanto tempo era passato da quando era stato l’ultima volta con Monilka sulle panchine davanti allo stadio, prima del matrimonio.

Poco dopo i primi chilometri di una neve che di sera appariva irreale e grigia, Serge si era già addormentato. Si era svegliato solo dopo quattro ore, a Omsk, per ritornare a dormire poco dopo la cena. Nonostante i tre ucraini, e l’aria chiusa e acida di alcol, si era addormentato, per risvegliarsi di nuovo, nella notte più profonda e senza motivo, a Kamyshlov.

Come se il suo viaggio non fosse mai neanche cominciato, Serge si ritrovò in un’altra stazione inutile, dello stesso verde stinto di quella di Chany, e altrettanto buia. Cercava di ricordare dove stesse andando, se a Mosca, a Ekaterinburg, o se semplicemente stesse vagando senza sosta da un posto all’altro, tra un’infinità di punti separati e senza significato, come aveva fatto tante volte, la sera, a Mosca. Dondolando il piede in mezzo al vuoto, il solo rumore che gli sembrava di sentire era quello dei pantaloni che strisciavano sulla scarpa pesante. Ritornò nello scompartimento, a fare finta di dormire e ad allontanare il momento di prepararsi o rinunciare all’incontro non ancora fissato con Monika.

Durante la notte immobile, senza motivo e senza spiegazioni, in cui le ragioni e i desideri si mescolavano fino ad annullarsi, Serge sembrò ritornare ai momenti incerti di tanti mesi prima, in cui ogni ritorno preparava una separazione dolorosa e inevitabile; Serge passò la notte ad osservare lo scompartimento in cui piano piano il buio veniva asciugato dalla nuova luce, e finalmente all’alba il treno ripartì, senza ragione e senza preavviso, così come si era fermato poche ore prima. Mentre si allontanava dalla stazione, gli sbalzi dei binari che si incrociavano scuotevano il corpo di Serge, e lo sollecitavano alla scelta. Infiniti prati si susseguivano, confondendosi e sovrapponendosi, e lasciavano lo sguardo Serge a inseguire l’orizzonte. Solo il lungo suono stridulo della frenata alla stazione Passazhirskiy lo risvegliò. Come ogni volta che tornava a Ekaterinburg, un vecchio pensiero, al quale lui stesso non sapeva più se credere, vibrò senza parole nella sua mente. Questo sarà l’ultimo viaggio.

Categorie
Fotografica Racconti

Dietro i suoi passi

[Post in fase di scrittura]

Ieri pomeriggio, finalmente, ha piovuto. Una pioggia improvvisa e pesante, che si è fatta aspettare per lunghe settimane, nel cielo troppo vuoto di agosto. L’aspettavamo almeno da un mese, io e Hyn Uk; così, visto che la faccenda prendeva tempo, e visto che da quando siamo andati in pensione l’unico modo interessante per passare le giornate è quello di cercare di indovinare e prevedere le più infime sciocchezze, un giorno abbiamo iniziato a scommettere anche sul tempo. Quando pioverà la prossima volta, ci siamo detti, ci ubriacheremo, e festeggeremo la pensione. Non prima della pioggia.

Era tradizione, nel distretto di Daegu, che il momento della pensione si festeggiasse con il migliore amico, che poi era la persona che ti aveva presentato, quaranta o cinquant’anni prima, al tuo primo padrone. Così come la vita di un vero uomo comincia con la prima donna che si conquista e si possiede, la vita di un vero lavoratore – dicevamo noi – comincia col primo padrone al quale si promette fedeltà. Non è come conquistare una donna, perché in con il padrone non puoi vantare qualità che non hai, lui è troppo furbo per crederci. E poi una donna, se la lasci, troverà ben presto un altro uomo da illudere e fargli credere una conquista, mentre se perdi il lavoro, chi lo vede più un pranzo decente? A Daegu, poi, i padroni erano specialmente pignoli in fatto di dipendenti, e se ne conquistavi uno te lo tenevi più stretto di una moglie. Almeno nel ’56.

La tradizione dice che l’amico che ti ha presentato al primo vero padrone ti ha fatto diventare un vero lavoratore, e ha permesso che arrivassi fino alla vecchiaia: e quindi gli devi un ringraziamento al momento della pensione, e un posto a tavola ad ogni festa di famiglia. Il mio amico era Hyn Uk. Nel ’56, quando avevamo quattordici anni, suo zio aveva una fabbrica di lattine di alluminio, fragili e puzzolenti, buone solo per riempirle di tonno acido, anche se c’era chi le comprava usate per nasconderci i soldi. Si pensava che nessun ladro avrebbe immaginato di cercare i soldi nell’olio di tonno, e che in ogni caso, non li avrebbe presi, tanto erano unti e disgustosi.

In quell’anno, una sera d’agosto, eravamo riusciti quasi per miracolo ad ottenere un appuntamento con due ragazze di Mullan, un paese vicino al nostro. Per questo appuntamento avevamo comprato delle scarpe nuove, che avevamo lucidato molte volte prima di uscire, come se quella lucidatura e la nostra costanza, o magari il profumo di pelle nuova avesse un qualche potere magico, avrebbe impressionato sicuramente le due ragazze, e le avrebbe certamente fatte innamorare immediatamente di noi. Credevamo ancora che le ragazze si innamorassero per i meriti dei ragazzi: troppo tardi capimmo che l’unico merito veramente efficace era un lavoro promettente, o una casa con il frigorifero, e meglio ancora un padre ricco. Una volta scesa la sera, ci eravamo preparavati ad andare a incontrarle, così incamminammo attraverso la campagna deserta, che cominciava appena dopo la casa di Hyn Uk. Profumavamo di cuoio, un odore morbido e umido che saliva dai nostri piedi non abituati alle scarpe chiuse, e a disagio, come quando si entra in casa d’altri senza invito. Dopo un quarto d’ora di marcia, ritmata dal suono croccante delle scarpe nuove, una pioggia improvvisa e inaspettata ci bagnò completamente, rovinosamente, in un attimo, noi e le scarpe. Un disastro per le scarpe. E quello sentimentale seguì dopo pochi minuti. Arrivammo a Shouer in ritardo di almeno mezzo’ora, impiagata a tentare di ripulirci. E in effetti le scarpe erano state lavate e scrollate, ma le mani e le camicie erano rimaste coperte di fango, foglie, e un pesante odore alcolico di cuoio muffito. Le due ragazze ci avevano aspettato dapprima con interesse, poi con impazienza, infine con rabbia. Appena noi, come se fossimo stati d’accordo, chiedemmo scusa, loro, come se fossero state d’accordo, ci riempirono di insulti, si voltarono e se ne andarono.

Addio alle ragazze, addio alle scarpe.

Io e lui decidemmo che avremmo dovuto cercarci un lavoro. Un lavoro vero, che ci permettesse di guadagnarci da vivere, ricomprare dei vestiti, e forse un giorno cercarci una moglie vera e tutta per noi, invece di stare a guardare le ragazze più grandi uscire e perdersi in campagna con i nostri amici.

Non era forse il momento migliore, per noi, di trovarci un lavoro. Tutti nel villaggio avevano saputo della figura da bambini che avevamo fatto con le ragazze, e nessuno avrebbe affidato un incarico a due ragazzini che evidentemente volevano solo far finta di essere cresciuti, ma senza esserlo davvero. Avevamo provato dal pescatore, Min Yul, ma anche annodare le reti rischiava di essere impossibile per noi, troppe mosse da ricordare, e troppo preziose le reti per essere rovinate da un ragazzo.

Dopo avere girato tutto il paese, ed esserci diverse volte persi d’animo, la madre di Hyun Uk ci raccomandò al fratello, che fabbricava scatole di latta. Suo fratello, Kim Syng, era magrissimo, quasi che lavorare e schiacciare la latta, anno dopo anno avesse fatto assottigliare anche il suo corpo. Per non parlare della puzza di olii industriali, ma comunque derivati da semi di piante a noi sconosciute, odore che inebriava le mosche e quelle farfalline estive e trasparenti, che cadevano nelle piccole pozze d’olio mai asciugate tra gli ingranaggi, ma che repelleva qualunque persona non lavorasse in fabbrica da almeno due anni.

Kim Syng volle vedermi; non che non mi conoscesse, se non altro perché mi aveva sempre visto giocare con suo nipote, ma voleva farsi un’idea più chiara del perché mai un ragazzo svagato come me avesse pensato di lavorare in una fabbrica, dove alla minima distrazione si rischiava – se andava bene – di essere licenziati, o addirittura di perdere due o tre dita nei macchinari americani, quelli nuovi, che giravano così velocemente che le ruote dentate sembravano le ali dei fringuelli di Ch’onsu-man, famosi per quanto rapidamente volavano via al minimo rumore. Lui mi guardò negli occhi, e anche se il suo sguardo non era certo impressionante, almeno non per la sua inesistente forza minacciosa, il fatto che potesse decidere se assumermi o no mi lasciava un vago timore e mi fece abbassare il tono di voce, e anche quel poco di entusiasmo che avevo prima di incontrarlo.

Categorie
Fotografica Racconti

Il piccolo ristorante ambulante di Bei Xidong

Il piccolo ristorante ambulante di Bei Xidong non era altro che un lungo ripiano di legno che al momento del pranzo veniva estratto dal rimorchio della bicicletta. E il rimorchio era un semplice cassone, ma senza rincalzi e perfettamente piatto, come un letto di obitorio con le ruote.

Ogni giorno, il signor Bei alla guida del suo ristorante faceva la ronda dei cantieri più affollati di Chanxi, rincorrendo le pause degli operai: al nuovo stadio di calcio la pausa per il pranzo era alle 11.30; al centro d’affari Perla D’Oriente, alle 12.00, al centro commerciale del Drago e della Fenice, alle 12.20; c’era anche la pausa per la cena, e quella per la prima colazione, e lui riusciva a non mancarne neanche una.

Al momento di montare il suo ristorante, il signor Bei bloccava la bici con il freno a mano, metteva due zeppe alle ruote del rimorchio e tirava verso fuori l’asse di legno in modo tale che questo sporgesse dal lato posteriore, come una specie di rigido trampolino da tuffi, ma alto da terra solo sessanta centimetri. Sul cassone disponeva pentole, zuppiere, spezie, polpette di carne e bottiglie d’acqua e birra; sul trampolino le pietanze per i suoi clienti, a formare una tavolata sufficiente per almeno sei persone. Poi sistemava alcuni sgabelli di plastica tutto attorno, e in meno di un minuto il ristorante era già in servizio.

Il ristorante di Bei era ben accolto dovunque: la qualità dei suoi piatti era molto alta, rispetto a quella dei venditori di insipidi liangfen, youtiao, o zongzi; inoltre il menu variava ogni giorno, così in tanti si avvicinavano anche solo a dare uno sguardo. La curiosità era la migliore alleata di Bei, anche perché la maggior parte dei suoi clienti erano dei semplici operai, che ogni giorno mangiavano le stesse due pietanze, una di Chanxi, e una della provincia di partenza; e per loro vedere piatti nuovi e sentire profumi nuovi era già una discreta tentazione.

Il signor Bei conosceva perfettamente gli orari di tutti i cantieri, anche di quelli che non si fermavano mai, come quello della linea 6 della metropolitana, che a mezzanotte in punto cambiava il turno. Di ogni cantiere, Bei conosceva anche la data di inizio dei lavoro, la data di fine, e ormai sapeva leggere tra i discorsi dei semplici manovali in quali zone, fra un anno, sarebbero sorti nuovi grattacieli, la nuova stazione, e il nuovo municipio. Ne sapeva di più degli investitori americani e di quelli del governo: e appena avesse accumulato un po’ di guadagni, avrebbe giocato in borsa, come il barbiere dietro casa, e sarebbe diventato ricco.

Intanto aveva pensato al ristorante. Ma quello, si diceva, era solo l’inizio.

L’idea gli era venuta pochi mesi prima, nel periodo delle grandi Olimpiadi di Pechino, quando i tuffatori cinesi avevano vinto abbastanza medaglie da fare inorgoglire persino la gente come lui, che veniva da una delle regioni più aride del Gansu, dove peraltro sapeva nuotare solo una persona ogni dieci famiglie.

Prima che gli venisse l’idea di aprire il ristorante vendeva soltanto bibite ghiacciate: aveva aggiunto alla bicicletta un baule di legno foderato di polistirolo e riempito di ghiaccio per proteggere le bottiglie dal calore estivo di Chanxi, che la sera era appiccicoso e penetrava dovunque.

Una sera di fine agosto stava aspettando l’arrivo dei saldatori al palazzo della Commissione Interministeriale; nella baracca del custode all’entrata del cantiere la televisione era accesa, e teneva compagnia alle due guardie del turno di notte che, invece di sorvegliare la strada, stavano accoccolate a fumare, completamente assorbite dalla trasmissione. Il custode dormiva sulla sedia da prima dell’arrivo dei due giovani: il cambio della guardia era avvenuto senza rumore, e d’altra parte lui non era il tipo che si interessasse a queste cerimonie.

Quella sera Bei era arrivato prima del solito davanti al cantiere, così, una volta posato ben in evidenza sulla strada il suo frigorifero artigianale, anche lui si era seduto a terra a guardare la televisione alle spalle dei due guardiani, che non lo avevano neanche sentito arrivare.

La trasmissione era interessante: le Olimpiadi si erano concluse da pochi giorni, e quello era un documentario sui trucchi segreti dei nuotatori cinesi per vincere le loro gare. Allenamenti quotidiani, amore per la Patria e per il Partito, e tanto yogurt Wadada. In effetti non era un documentario, ma una semplice pubblicità, però siccome il nome dello yogurt veniva detto sempre dopo il Partito, nessuno poteva pensare che ci fossero astuzia o secondi fini nel racconto delle imprese che tanto onore avevano dato alla nazione.

In questo documentario, la grande nuotatrice Guo Xingxing appariva raggiante, la pelle bagnata dall’acqua della piscina e chiara come lo yogurt. Camminava sul bordo della piscina e rispondeva alle domande del giornalista e dei fans, quando, guardando il trampolino vi trovava tanti vasetti di yogurt Wadada. Allora lei, dimenticando il giornalista, si sedeva sul bordo della piscina, le gambe in acqua, e con un movimento sensuale e fulmineo si inclinava verso il trampolino su quei deliziosi yogurt, pronti per essere mangiati con voluttà prima del tuffo finale.

L’immagine di Guo Xingxing che mangiava appoggiata al trampolino come se fosse il tavolo di un bar colpì molto il signor Bei. Dopo la scena del tuffo, i due guardiani del cantiere si scambiarono compiaciuti mormorii di apprezzamento sul fondoschiena della bella nuotatrice. Il signor Bei, senza far caso a loro, esprimeva sottovoce un forte entusiasmo con se stesso per l’idea che si stava formando. Solo allora i due guardiani si accorsero che dietro di loro c’era un uomo; sentendo le sue parole, gli sorridevano con sguardi di complicità maschile, convinti che anche lui stesse commentando le forme attraenti della ragazza.

Il termine della trasmissione coincideva con la campana del turno dei saldatori: dopo pochi minuti una decina di persone, riconoscendo Bei, cominciarono a chiedergli birra, suanmeitang, doujiang. Approfittando della sua poca concentrazione, molti di loro pagarono due bicchieri il prezzo di uno; l’indomani Fen Lei, che era reputato il più furbo, si era vantato coni suoi colleghi di avere bevuto tutto gratis, quando invece, tenuto d’occhio dal signor Bei, aveva dovuto pagare ancora prima di prendersi il suo bicchiere di baijiu.

L’idea del trampolino-tavola andava prendendo forma: il giorno dopo il signor Bei non andò a fare il solito giro dalle parti dell’autostrada sopraelevata, dove solo pochi operai sprecavano le ultime forze per scendere dai ponteggi, comprare da bere e risalire; ma comprò un rimorchio per la bici, un asse di legno bello liscio, e andò a cercare Meimei, una cugina di quindici anni che era la sola nella famiglia a conoscere i gusti estetici e culinari di moda quell’estate a Chanxi. Accompagnato da lei, poté comprare pentole, ciotole di alluminio, bacchette nuove, e sacchi e scatole di ingredienti.

Nel montare il ristorante, la parte più difficile era sistemare l’asse di legno in modo che, con la bici ferma, si potesse spostare per fare da tavolo, ma negli altri momenti non doveva sporgere dal cassone per non far raggiungere al suo veicolo la pericolosa lunghezza di tre metri: arrivati a quel punto, infatti, la polizia considerava ogni veicolo “da carichi pesanti”; e anche la tassa da pagare in quel caso era, a detta di tutti, piuttosto pesante. O almeno di questo era convinto il giovane Fu Bai, ex riciclatore di lattine, che per trasportare un carico particolarmente ricco aveva voluto allungare il suo carretto: fermato dalla polizia, nel dubbio tra pagare o scappare, preferì abbandonare carro e carico ai due agenti sbigottiti.

Per risparmiarsi questo genere di avventure, più interessanti da raccontare che da vivere, Bei riuscì a montare l’asse in modo da poterla estrarre e ritrarre come una lingua, facendola scivolare su dei binari di ferro.

Completata la costruzione di questo mezzo, montato con le sue mani e decorato da quelle di Meimei, il signor Bei era ancora a meno di metà del progetto. Mancava la scelta delle pietanze. Lui si intendeva solo di bevande, aveva due piatti preferiti, che del resto erano gli unici due che sapesse cucinare, così bisognava ricorrere a qualcuno per i suggerimenti e per la preparazione. Nello stretto hutong nel quale viveva le donne abbondavano e venivano da tutte le province, quelle piccanti, quelle dolci, quelle oleose, quelle esotiche, ma non ce n’era una che venisse da una provincia dove i piatti tipici fossero semplicemente buoni. Buoni non come quelli che sapeva cucinare lui, buoni come quelli che gli operai di tutti i cantieri avrebbero dovuto desiderare al solo sentirne il nome.

Dopo molto riflettere, si decise a dare in appalto la cucina a Suan Lian, la ragazza più raffinata del vicinato. Lei faceva la cameriera in un ristorantino francese del centro, e da quando era stata assunta aveva cominciato a disprezzare il cibo cinese. La luna all’estero è più rotonda che in Cina. Aveva imparato ad usare forchetta e coltello, e alle amiche che le chiedevano di insegnar loro come usarle rispondeva in modo evasivo, come se non volesse rivelare chissà quale segreto; come se maneggiare con abilità la forchetta rendesse una donna più nobile ed elegante, e lei voleva essere la più elegante del suo hutong. Le amiche se ne lamentavano: erano tutte invidiose, diceva lei. Ma in fondo lei aveva già avuto un fidanzato, tempo prima, mentre loro si stavano ancora perfezionando nell’arte rara di sedurre un uomo. E sapere mangiare all’occidentale poteva essere un vero asso nella manica di ogni giovane ragazza di Chanxi.

Il signor Bei andò a cercarla un pomeriggio di lunedì. Era il suo giorno di riposo. Nei ristoranti occidentali concedersi il lusso di un giorno di riposo non equivaleva a perdere i clienti di quel giorno, ma a guadagnare in reputazione per tutti gli altri. E siccome in Europa i ristoranti sono tutti chiusi di lunedì (almeno a quanto diceva il padrone), ogni lunedì Suan Lian restava a casa. Nessuno però riusciva a togliere a lei e alle sue colleghe la convinzione che quella fosse solo una scusa per pagarle un giorno in meno alla settimana. E per di più, sempre con la stessa scusa delle ancora più inverosimili perché insensate abitudini europee, il suo ristorante chiudeva, lasciandola ancora senza paga, anche a metà pomeriggio di tutti gli altri giorni. Di tanto in tanto Suan Lian si chiedeva se lavorare per un occidentale fosse poi questo grande privilegio che lei raccontava alle amiche.

La proposta di Bei era questa: lei, con la sua famosa esperienza di cucina cinese e inglese avrebbe scelto i piatti da cucinare; poi li avrebbe preparati per lui il lunedì e nelle pause pomeridiane.

Suan Lian per prima cosa precisò, leggermente risentita, che il suo ristorante non era inglese ma francese, per quanto queste sottigliezze fossero trascurabili per il signor Bei. Dopo, però, sembrò accettare. Solo che la sua arte non si vendeva a tempo: voleva anche dividere i guadagni.

Così iniziò ad escogitare menù buoni per cinesi e per occidentali, gli operai e i manager, i muratori e i banchieri, che il signor Bei avrebbe svelato quotidianamente al momento dell’arrivo al cantiere. Ogni giorno ci sarebbe stato un menu diverso, come nel suo ristorante francese, dove il piatto del giorno veniva creato in base al pesce più fresco o ai funghi appena raccolti, e persino all’umore del cuoco in capo.

Ogni giorno, recuperando gli avanzi di cucina del ristorante francese e facendo le spese del vicino mercato all’aperto, la signorina Suan riusciva a cucinare, nelle due ore di pausa pomeridiana, quattro o cinque piatti diversi, zuppe, doufu, carne, verdure, a volte persino pesce o qualche piccolo granchio che aveva provato a scappare dal cuoco, rifugiandosi tra i piatti da lavare della cucina. In un primo tempo, a dire il vero, questa avanguardistica fusione tra due cucine intercontinentali non aveva dato buoni risultati: il primo piatto che Suan Lian aveva immaginato non era altro che un banale zha doufu ma fatto con avanzi di formaggio al posto del doufu, e una mediocre imitazione d’olio d’oliva al posto della salsa di soia. Solo i peperoncini erano conformi al gusto cinese. Il numero giusto per ogni portata era 58, pronunciato come “mi arricchisco”. In questo modo, però, il piatto risultava anomalo per i cinesi e quasi mortale per gli occidentali. Il figlio del cuoco francese, Monet, di otto anni, chiamato così dalla madre per nostalgia delle colline della Normandia, era, a sua insaputa, l’assaggiatore clandestino delle sperimentazioni culinarie di Suan Lian. Per quanto ancora bambino, aveva già l’età giusta per rifiutare sdegnato ogni cibo che non fosse di suo assoluto gradimento; e il suo gusto era ancora abbastanza occidentale da potere garantire un responso affidabile.

Il signor Bei aveva assaggiato per primo questo nuovo piatto e aveva detto che, se non fosse stato per quell’appiccicoso olio verdastro, gli avrebbe ricordato il chou doufu fatto a mano da sua madre, il cui ortodosso cattivo odore era talmente celebre nella famiglia che qualcuno lo dava come uno dei buoni motivi che aveva spinto Bei ad andarsene definitivamente dal Gansu.

Ma siccome molti clienti cinesi del ristorante francese, la prima volta, davano gli stessi commenti della rinomata cucina del padre di Monet, Suan Lian si convinse che il piatto creato da lei fosse una specie di punto di bilanciamento ideale tra il gusto orientale e occidentale. Mentre, almeno fino a quella fase, era semplicemente un compromesso tra il coraggio gastronomico cinese e l’ostinata ricerca di esotismo francese. Ci volle tempo prima che Suan Lian e i suoi assaggiatori fossero sufficientemente convinti della commestibilità di tutti i piatti che riuscivano a superare questo test in tre fasi.

Una volta completato il repertorio, bisognava trovare i nomi dei piatti: per questo incarico fu scelto un consigliere speciale, Zhui Lihuai, un vicino di casa, ex-funzionario delle ferrovie. Il signor Zhui aveva lavorato per dieci anni nelle province estreme della Cina, quando i treni erano molto rari. Si occupava dell’organizzazione dei festival in onore del personale delle ferrovie: in definitiva il suo compito era conoscere tutte le storie cinesi antiche e moderne e fornire lo spunto per gli spettacoli di fine anno; adesso sfruttava le sue conoscenze scrivendo lunghe calligrafie d’acqua sporca davanti all’ingresso dello Hutong nella speranza di farsi fotografare da qualche turista occidentale. Appena convocato dal signor Bei, si mise subito a disposizione, pretendendo soltanto di scrivere personalmente e firmare a mano i fogli dei menu.

I nomi scelti prendevano spunto dalle famose Quattro Bellezze della mitologia classica cinese; l’idea era del signor Bei, e sarebbe servita a lasciare nel vago i clienti sugli effettivi ingredienti dei piatti, lasciando però che l’immaginazione andasse alle quattro donne leggendarie per la loro bellezza: Xi Shi, Bei Zhaojun, Diao Chan e Yang Guifei. La clientela di Bei era quasi esclusivamente maschile, e forse questo trucco avrebbe avuto un buon effetto sui suoi affari. Fu deciso di intestare ad ognuna di loro il menu di una intera giornata. Così il martedì era il giorno di Xi Shi, e ogni piatto alludeva a una parte del suo corpo, mani, capelli, occhi; il mercoledì era la giornata di Bei Zhaojun e dei suoi goielli, il giovedì di Diao Chan e delle sue ancelle, il venerdì di Yang Guifei e delle sue magiche virtù. Lunedì invece era logicamente il giorno di Chang’e, e i piatti a lei dedicati ricordavano le tappe della sua ascesa alla luna; il sabato, giorno tanto atteso, era dedicato al terribile Nezha, che per nascere ci aveva messo tre anni e mezzo.

La domenica fu riservata a He Qiong, l’unica donna tra gli Otto Immortali, forse perché almeno in teoria anche la domenica doveva essere un’eccezione, l’unico giorno di riposo nella settimana.

Fu ideato anche un pannello di legno, molto colorato, con una grande scritta “Ristorante di Bei Xidong – Piatti eccellenti da tutto il mondo conosciuto e sconosciuto”.

Era ormai la fine di settembre; le Olimpiadi erano terminate da più di un mese, e il lavoro nei centododici cantieri di Chanxi proseguiva con il solito passo. Ma stava per arrivare la festa della Repubblica, per una settimana tutti i lavori importanti sarebbero stati temporaneamente fermi e gli operai sarebbero spariti nei loro alloggi a prezzo ridotto; qualche fortunato forse avrebbe persino potuto raggiungere la moglie, o almeno la fidanzata: Bei pensava che fosse il momento ideale per gli ultimi preparativi.

Per correggere le dosi dei condimenti, scrivere altri piccoli manifesti decorativi convincenti e altisonanti e ridipingere la bicicletta, la piccola équipe impiegò ancora quattro giorni, durante i quali il lavoro si svolgeva tutto all’aperto, all’ombra del platano che proteggeva la casa di Suan Lian dal vento sabbioso del nord. Tutti i pensionati che fino a qualche giorno prima passavano il pomeriggio a giocare a carte o a majong cominciarono a spostarsi anche loro sotto il platano, anche se dal lato meno ombreggiato, e sembravano avere trovato un nuovo interesse provvisorio, le scommesse su quanto tempo potesse durare l’attività di Bei prima di essere bloccato dalla polizia o da un qualche concorrente meno fantasioso e più muscoloso. I pessimisti scommettevano su poche ore; i più ottimisti pensavano che Bei sarebbe durato anche una intera settimana, ma che sarebbe stato comunque sconfitto dalla graduale scomparsa dei suoi clienti, di sicuro avvelenati lentamente da quel cibo sospetto né cinese né giapponese. In realtà nessuno aveva mai parlato di cibo giapponese; i vicini di Suan Lian sapevano che lei lavorava in un ristorante straniero, senza però interessarsene troppo: ma il cibo degli invasori, che fossero giapponesi, francesi o americani, restava sempre un cibo sospetto.

Lunedì 6 ottobre, alle sei del mattino, il signor Bei uscì da casa, caricò il suo ristorante, e partì verso la zona nord, dove il lavoro iniziava alle sei e mezza. Per fare un test poteva tentare di vendere xiaochi, una colazione sostanziosa: a quell’ora anche gli operai non erano del tutto svegli, e avrebbero accettato con meno diffidenza del cibo nuovo.

Davanti al cancello lucente che copriva le fondamenta appena iniziate del Palazzo dei congressi, il signor Bei arrivò con la sua bici lucente, e la fermò. Poi lentamente estrasse il tavolo-trampolino, vi mise sopra sei piattini vuoti, sei ciotole vuote, diverse vaschette di spezie, e sistemò il cartello di legno dipinto dal signor Zhui. Le altre pentole e i contenitori di cibo caldo restavano sul cassone. Poi si sedette sul sellino liscio della bici, a guardare l’aria piena di polvere e nebbia; nonostante la totale assenza di pubblico, c’era una certa solennità nel suo portamento.

Per dieci minuti non passò nessuno. Anche il custode era in ritardo. Doveva tornare a lavoro alle sei, ma rientrava dal Ningxia col treno, e forse sarebbe stato meglio se non l’avesse preso, perché fu licenziato alle sette, ancora prima di salutare il capomastro.

Il primo cliente, ancora con gli occhi semichiusi, era un carpentiere proprio del Gansu. Si sedette sullo sgabello senza nemmeno notare il prodigio di un ristorante trasformabile a ruote, che fino a quel momento era lì solo per lui. Non parlava quasi mandarino e, fra il sonno e il malumore di iniziare una nuova settimana, si rivolse a Bei con uno stanco accento di Zhangye: “sifae”. Il signor Bei, come riconoscendo nell’apparizione di un compatriota un segno positivo per il suo nuovo lavoro, gli porse subito una ciotola di quella zuppetta salata di riso che altri due uomini, arrivati subito dopo, mandando occhiate di rimprovero al carpentiere, chiamarono invece “xifan”, insistendo molto sulla pronuncia corretta, come se quell’altro, dicendone male il nome, avesse potuto guastare anche la ricetta.

Anche loro due si sedettero al tavolo distrattamente: e al signor Bei questa mancanza di attenzione fece quasi piacere: almeno la stranezza della sua creazione non spaventava i clienti.

Invece delle verdure salate classiche, lo xifan di Bei conteneva olive di Provenza e pezzetti di sedano avanzati la sera prima da un’insalata del ristorante di Suan Lian. Il carpentiere sembrò sorpreso dal gusto leggermente diverso, ma pensò che forse era un’impressione dovuta al fatto di non avere lavato i denti da più di una settimana. Sorrise. Anche Bei, che lo osservava facendo finta di niente, sorrise. Gli altri due sorridevano meno, pensando a quanto stupido fosse il loro collega, che li aveva spinti ad ordinare uno xifan dal gusto sospetto. Un mal di pancia avrebbe significato non lavorare per un pomeriggio, o lavorare con metà forze. E sarebbe stata tutta colpa di quel demente del collega del Gansu.

Mentre i tre finivano di mangiare, cominciarono ad arrivare diversi gruppi di muratori, saldatori e macchinisti, molto più svegli e di umore migliore; loro non erano rientrati a casa per la festa, avevano risparmiato soldi ed energie, a parte qualche serata passata tra karaoke e bordelli. Loro conoscevano il signor Bei, e vedendo il suo nuovo ristorante gli fecero dei complimenti di augurio tra il lusinghiero e l’invidioso, riempiendo d’orgoglio il piccolo padrone. Loro, diversamente dai tre addormentati di prima, notarono il tavolo allungabile, il menu scritto elegantemente, la varietà e il nome dei piatti; consideravano tutto questo troppo intelligente per essere stato creato dal solo Bei, e cominciarono a chiedergli metà scherzando metà seriamente se lavorasse per un investitore straniero.

La prima giornata era andata abbastanza bene. Gli spaghetti di soia alle acciughe mediterranee, chiamate “Il canto di Chang’e” finirono prima di mezzogiorno. E anche i panini al vapore ripieni di carne di maiale e mozzarella da pizza ebbero una buona accoglienza.

Bei, esauriti i piatti, tornò a casa più presto del solito. Ma prima passò a salutare la signorina Suan al ristorante francese. Lei lo aspettava. Anche se veramente aspettava ancora di più i risultati di quella giornata. Uscì ad incontrarlo con l’uniforme del ristorante, in vero stile europeo, composta e sobria. Mentre scendeva gli scalini del retrobottega, cercava già nello sguardo di Bei le tracce di successo o di insuccesso. Al secondo gradino intravide un cenno di complicità di Bei, e al terzo stava già provando a calcolare la sua percentuale di guadagno. Stava per salutarlo, ma prima ancora di aprire bocca fu richiamata dentro. Bei ebbe solo il tempo di dire la frase: “Tutto venduto”, e di vederla sparire subito dopo, senza risposta. Rimase ad aspettarla, e si ripeteva il suo “Tutto venduto”, cercando di capire se era riuscito a farle sentire che la sua frase era più un complimento che un resoconto commerciale. Si rese conto che da come l’aveva detta la prima volta non c’era indizio di complimenti, e si ripromise di dirla meglio appena lei sarebbe tornata.

Quando Suan uscì nuovamente fuori, Bei aveva ridetto la sua frase almeno dieci volte, l’aveva provata, aggiustata e perfezionata, e si preparava infine ad una esecuzione più convincente. Invece Suan, guardando il rimorchio vuoto, gli chiese subito: “E quanto abbiamo guadagnato?”, azzerando in un istante con quel “noi” le loro differenze di merito, di fatica e di percentuale.

Era tornato dal suo primo giro molto soddisfatto. Rispetto a quando vendeva bibite fredde aveva guadagnato almeno il doppio, aveva faticato meno, e soprattutto immaginava che il suo nome e la sua reputazione sarebbero certamente ancora migliorati. E poi, se le cose continuavano così, poteva cominciare a vantarsi con i suoi clienti di conoscere e frequentare una ragazza.

Il secondo giorno andò meno bene del primo; forse gli avanzi del ristorante non erano abbastanza invitanti, o forse eramo quei giorni di ottobre faticosi perché non c’è nessun buon motivo per lamentarsi e prendersela con il tempo, con il collega, o con quel vigile che ogni giorno ferma il semaforo quando stai per arrivare. Ma se non c’è motivo per lamentarsi non c’è neanche bisogno di consolarsi mangiando bene. Alla fine del giro, che era durato un poco più a lungo, il signor Bei andò di nuovo a trovare la signorina Suan. Questa volta non aveva frasi galanti da perfezionare. Si scambiarono due occhiate veloci, un po’ di danaro ancora caldo delle tasche di Bei, e si diedero appuntamento la sera, per cucinare insieme.

I primi giorni sono duri, si dicevano, e poi la cucina è troppo nuova; ma si abitueranno.

Oggi ho venduto quasi tutto: gli zongzi alla menta sono finiti per primi; dobbiamo rifarli.

Oggi ho conosciuto il segretario del sindaco: mi ha chiesto se avevo l’autorizzazione e poi si è seduto a mangiare da me.

Oggi mi hanno presentato il capo del cantiere della piscina, è un francese, conosce il tuo ristorante. È a Chanxi da due anni, parla cinese benissimo. Sa chiedere come ti chiami. Il suo interprete mi ha detto che sa anche chiedere che ore sono, ma io non l’ho sentito.

Oggi al ristorante è venuto quel francese del tuo cantiere, ha detto che ti conosce.

Oggi ho incontrato il francese, mi ha portato i suoi amici. Ha detto che non aveva mai visto una bicicletta ristorante.

Oggi il francese è venuto con un amico francese, un giornalista. Mi hanno fatto un’intervista. Peccato, avevo la maglietta sporca.

Passati tre mesi, poco prima della Festa di Primavera, il signor Bei era una piccola celebrità a Chanxi. Aveva cominciato a correre meno tra i cantieri e a fermarsi di più, all’ora di pranzo e di cena, vicino alla Piazza del Popolo, sul Corso della Liberazione. In quella zona i turisti erano più numerosi, e si avvicinavano per farsi delle foto con lui, mangiando le sue specialità, e trovandole relativamente mangiabili, visto che costavano poco.

Durante i giorni della Festa, con i cantieri del tutto chiusi, il signor Bei, chiese alla signorina Suan di prendersi tre giorni di permesso e di cucinare con lui, accanto al ristorante. Erano giorni di grande movimento, tanti cinesi andavano a Chanxi a passare le vacanze, e molti occidentali sazi di Shanghai e Pechino cominciavano anche a esplorare le Colline della Fenice e le sorgenti dell’Acqua dei Diecimila Anni. Due giorni a Chanxi bastavano per vedere tutto. Ma quando erano in città volevano vedere il ristorante ambulante di cui si parlava anche nell’ultima edizione della guida Lonely Planet.

Bei era sorpreso di essere diventato famoso. Aveva saputo che a Jianbo un ragazzo di sedici anni aveva imitato il suo ristorante: se avesse conosciuto un avvocato lo avrebbe denunciato. Con il passare dei mesi il ristorante cominciava a essere sempre meno ambulante, e alla fine di aprile ormai aveva trovato un posto fisso vicino alla via pedonale sul Corso della Liberazione. La signorina Suan quasi ogni giorno lavorava con lui, e aveva iniziato a comprare ingredienti freschi invece di recuperarli dai piatti sporchi del ristorante francese. Lei era giovane, aveva ventidue anni, e gli stranieri le facevano i complimenti a gesti, e i ragazzi occidentali le facevano delle foto quando Bei non li guardava.

Bei sperava di potere lavorare ogni giorno con Suan prima che arrivasse la Festa Nazionale. Un giorno, prima di rientrare, la chiamò affettuosamente con il suo nome, A Lian. Non aveva fatto attenzione quella “A”, che forse era un po’ troppo audace: l’ultima volta che aveva chiamato così una ragazza, aveva preso uno schiaffo; A Lian, invece, gli sorrise, ma di un sorriso che non era una risposta a quello timido di Bei.

Lei stava iniziando a pensare ad aprire un vero ristorante: lei cuoca stabile, la cugina Meimei cameriera. Almeno avrebbe smesso di essere lei, la cameriera.

Suan aveva ragione, le sue amiche sono tutte invidiose.

Fei Hanqi, che era la sua confidente, e l’unica ad aver avuto rivelato il segreto per tenere il coltello e la forchetta, ieri l’ha incontrata, e non l’ha salutata. Si è offesa perché non è stata invitata al matrimonio. Non tanto per vedere l’amica, ma almeno per conoscere dei ragazzi nuovi.

Ma Fuhuo, sua ex-collega al ristorante francese, da quando Lian se ne è andata deve fare da sola anche il suo lavoro. E sopportare le lamentele del capo francese, che accusa Lian di avergli rubato la cucina. Come se fosse lei, la ladra.

An Chao, che andava sempre con Lian a cercare vestiti usati, ha un amico giornalista, e ha saputo da lui del nuovo ristorante. In un suo articolo c’era la foto dell’inaugurazione. Non era stata chiamata, e allora lei non andrà mai al ristorante di Lian. E pazienza se non potrà vedere i tre saloni, quello cinese, quello francese, e quello della nuova cucina inventata dall’ex amica e da quello straccione di Bei.

Categorie
Fotografica Racconti

La scoperta del mare

La prima volta che Nsue vide il mare, pioveva.

Aveva cinque anni e mezzo, e suo zio Akuete gliene aveva parlato spesso, descrivendolo al bambino curioso come una specie di cielo ribaltato e liquido, dove gli alberi non avevano tronco, ma solo lunghe foglie, gli uccelli non avevano ali, e allora anche persone potevano volare. Suo zio raccontava storie di pesci enormi, viaggi pericolosi e tempeste e barche naufragate; voleva fare bella figura, si vantava tanto che sembrava l’avesse scoperto lui per primo.

Nsue non era sicuro se credere o no a quei racconti così appassionati, ma nel dubbio il desiderio di vedere il mare si rafforzava ad ogni nuova storia che ascoltava.

Nsue abitava in un villaggio a pochi chilometri da Kukumancoc, e come tutti i bambini della sua età, non aveva mai visto il mare. Lui però, diversamente dagli altri, aveva la fortuna di essere il nipote di Akuete, che invece lo vedeva spesso.

Quando lo zio tornava dopo le sue periodiche assenze di quasi due settimane, la prima cosa che Nsue faceva era proprio chiedergli di raccontargli qualcosa di nuovo, come se da un mese all’altro l’oceano potesse prosciugarsi e scomparire, o magari decidere di spingersi fino a Kukumancoc solo per farsi ammirare, e poi tornare indietro.

Per quanto assurdo, Nsue in fondo sperava proprio che un giorno, in un modo o nell’altro, la superiorità che gli veniva dal conoscere tante cose rispetto ai suoi coetanei venisse confermata da qualcosa di innegabile e definitivo, se non addirittura dal mare in persona, che venisse a mostrarsi per dargli ragione davanti a tutti.

Nell’attesa di questo improbabile evento, Nsue si preparava da tempo a vederlo un giorno nella sua sede naturale, la spiaggia di Bata.

Finalmente, un giorno lo zio, tornato insolitamente in anticipo da uno dei suoi soliti viaggi, lo chiamò e gli disse: “Domani andiamo a vedere il mare”. Sapeva che l’avrebbe fatto felice, e appunto per questo non volle aggiungere altro; poi sparì nella sua stanza e andò a smontare il bagaglio che aveva con sé e a preparare il nuovo.

Anche Nsue voleva preparare il suo, ma non sapendo cosa portare, prese solo l’oggetto più intrepido che possedesse, un cappellino di stoffa con la visiera di plastica iridescente.

I viaggi di Akuete erano molto regolari: ogni due settimane scompariva a piedi dal villaggio, e ricompariva dopo dieci giorni, sempre a piedi, ma con la barba molto più lunga e carico di oggetti.

La camminata durava fino a Kukumancoc, poi il viaggio proseguiva fino a Niefang su una corriera degli anni ‘80, poi su un’altra corriera, meno vecchia, fino al centro di Bata, e poi di nuovo a piedi al porto. Saliva sulla Encelada, la barca di suo fratello Mitoha, il pescatore-postino, che sfiorando tutta la costa, all’unico prezzo di due birre lo portava a Mbini. Da là saliva su un’altra corriera fino ad Acalayong. Il viaggio era spossante, e sulla strada non si vedeva altro che giungla e polvere: poco prima dell’arrivo, solo la vista sulla maestosa foce del Rio Mitemele poteva ripagare tutta la fatica e la sete accumulate in otto ore di sobbalzi.

Attraversava lo stretto sulle piroghe di Francisco Myone, che poi lo ospitava in uno stanzone lurido della sua casa di Kogo, insieme ai viaggiatori che l’indomani sarebbero ripartiti verso nord.

Una volta svegliato, Akuete cercava il traghettatore Obiang, e lo trovava sempre mentre mezzo addormentato ma ancora all’erta dentro il suo gommone giallo: aveva paura dei ladri e dei gabonesi; finalmente in sole tre ore di acqua salata negli occhi, puzza di nafta, e insipide barzellette sui gabonesi, giungeva all’isola di Corisco.

A Corisco restava una settimana, e la passava a cucinare per gli americani e gli europei che si davano il cambio per misurare e rimisurare il terreno dell’isola. Cercavano il petrolio, ma le trivellazioni non iniziavano mai, perché ogni mese arrivava un esperto più esperto di quello del mese precedente, che chiedeva sempre nuove rilevazioni e se ne andava senza avere concluso niente.

Cucinare per loro era facile e rendeva bene, e ogni volta si imparavano due o tre nuove parole di inglese, buone per darsi arie di giramondo con gli amici a Mbini e a Bata.

Il viaggio di ritorno a casa durava un giorno in più, che serviva per comprare con i soldi nuovi quello che serviva al villaggio. Akuete si fermava nei vari mercati lungo tutta la strada, a contrattare e scambiare continuamente dollari, pesce fresco, franchi, pane, bottiglie di plastica e scarpe da tennis importate.

La sera dei decimi giorni, proprio quando al villaggio le donne iniziavano a cucinare insieme, Akuete tornava, e prima ancora di rientrare a casa distribuiva loro le spezie e gli oggetti che gli erano stati commissionati prima del viaggio; solo allora poteva cercare Nsue, regalargli minuscoli giochini o portachiavi di metallo che gli avevano lasciato gli americani, e raccontargli per l’ennesima volta del mare e di come quella volta si era comportato con lui.

Veramente quell’ultima volta il mare si era comportato male, scuotendo più del solito il gommone di Obiang; e anche tutto il resto era andato abbastanza storto, perché una tempesta si era abbattuta su Corisco, anticipando di molto il ritorno dei tecnici Spagnoli e Inglesi, così che anche lui era dovuto tornare prima.

Non avendo altro da fare ancora per alcuni giorni, Akuete pensò di a fare un regalo a Nsue: l’indomani lo avrebbe portato a vedere il mare, a Bata, a poche ore dal villaggio. Avrebbero passato la giornata a pescare con suo fratello, per guadagnarci quaranta franchi e magari rivendere al villaggio qualche pesce fresco per la cena.

Così, l’indomani mattina, prima che il sole fosse troppo caldo, Nsue e lo zio si incamminarono a passi svelti verso il paese.

Nsue era stato diverse volte a Kukumancoc, e di solito non faceva più caso neanche alle profonde buche della strada, ma stavolta era diverso, e cercava di fare attenzione ad ogni albero, a ogni persona che incontrava, per ricordarsene un giorno; e gli sembrava che tutti gli adulti che incontrava sapessero segretamente del viaggio importante di quel giorno, e gli mandassero chi degli sguardi di complicità e approvazione, chi di sfida, come a dire: “non vedi che sei troppo piccolo per camminare fino al mare?”

E in effetti, Nsue sapeva bene che era troppo piccolo, e non aveva idea di dove fosse davvero, il mare. Sapeva che bisognava attraversare foreste e foreste, fiumi, ancora foreste, villaggi sconosciuti e troppo grandi, ma questo era soltanto il quello che ricordava dei racconti dello zio Akuete; e dopo diverse ore di strada in mezzo a distese sconfinate di alberi, cominciava a preoccuparsi e a perdere la fiducia nello zio.

Man mano che procedevano sulle corriere rumorose, i nomi dei paesi diventavano sempre meno familiari: Akoga, Evinayong e persino Niefang gli sembravano conosciuti, ma quando sentì i passeggeri vicino a lui lamentarsi che erano in ritardo per il mercato di Machinda, cominciò davvero a temere di essere finito chissà dove. L’entusiasmo di poche ore prima gli sembrava restare impigliato tra i rami degli alberi che a tratti sfioravano il vetro della corriera. E, per giunta, lo zio seduto accanto a lui si era addormentato!

A Machinda, la corriera dovette fermarsi più a lungo del solito, perché come temuto era arrivata in ritardo per il mercato, e otto passeggeri piuttosto anziani si lamentavano con l’autista dandogliene tutte la colpa; lui invece, si difendeva, non aveva colpa di niente, la corriera era del suo padrone, e se lui, per fare presto, avesse avuto un incidente, avrebbe dovuto rimborsare tutti i danni con i suoi soldi. Era giovane, la sua pelle nerissima era lucida di sudore, ma più per la paura di perdere i clienti abituali del suo padrone che per il calore, che pure era soffocante.

Anche Nsue cominciava a soffrire il caldo. Era quel caldo umido e minaccioso di inizio estate, quando il vento sibila come i serpenti velenosi, e annuncia la pioggia e la tempesta a chi sa decifrare il suo linguaggio senza suono. Gli anziani avevano capito che la pioggia sarebbe arrivata entro poco tempo, e se la prendevano con l’autista come se anche la pioggia fosse colpa sua e della sua corriera vecchia di trent’anni.

Il rumore dei battibecchi svegliò Akuete. Vedendo lo zio sveglio, Nsue gli chiese con apprensione dove fossero. Questa ulteriore attesa innervosiva il bambino, che pur rassicurato che mancassero solo pochi chilometri al mare, vedeva il cielo sempre meno incoraggiante, e risentiva del nervosismo delle persone attorno a lui.

Al rinforzare del vento, i venditori del mercato cominciavano raccogliere le stuoie, la frutta e i pesci salati, prima che la polvere e l’umidità li rovinassero completamente. Mitobo Nzang, il venditore ambulante di scarpe più conosciuto del Litoràl, si limitò a coprire la sua mercanzia con uno spesso sacco di plastica trasparente. Si vantava che i suoi clienti arrivassero persino dalla provincia del Wele-Nzas, e, che fosse vero o no, nessuno lo avrebbe smosso da là fino al passaggio della corriera che da Mongomo portava a Bata.

La corriera di Nsue ripartì esattamente all’arrivo delle prime gocce di pioggia, come se quello fosse un segnale di lasciapassare. Anche gli anziani, ormai rassegnati, erano scesi e si erano radunati dall’altro lato della piazza. Avrebbero aspettato la stessa corriera per il viaggio di ritorno: il giovane autista intuiva già come avrebbe passato le ore seguenti!

La pioggia ora sembrava scendere più consapevolmente, forse voleva davvero rovinare la festa a Nsue. Nell’ultimo tratto di strada, che usciva dalla foresta e scendeva lentamente fino a Bata, Nsue quasi non vedeva più i bordi della strada, ma sentiva solo il suono delle ruote che sprofondavano nelle pozzanghere e dei cani che abbaiavano al suo passaggio.

Bisognava ammettere la delusione. Già da quel punto, aveva detto lo zio, quando il cielo era limpido, il mare spuntava da dietro l’ultima curva come un’alba azzurra e verde, un bagliore fresco che riempiva la vista e portava l’odore del sale, ma quel giorno sembrava che il mare volesse nascondersi a Nsue, per avere osato cercarlo senza avere l’età sufficiente. Forse avevano ragione le persone che la mattina, al villaggio, lo avevano guardato male.

L’arrivo a Bata però era comunque spettacolare: dove prima la strada era un corridoio tortuoso tra la vegetazione, adesso le case cominciavano a essere sempre più numerose e belle, e piccole stradine laterali, seminascoste dagli alberi alti, lasciavano intravedere villaggi e poi quartieri che già da soli erano molto più grandi di Kukumancoc. E poi tante automobili, tante persone cariche di oggetti, manifesti di pubblicità, e negozi e colori; Nsue notava pochi bambini, forse a loro non interessava andare a vedere il mare; bambini di città, poveri ma viziati, la spiaggia a pochi metri e non volerne approfittare!

Intanto il tempo migliorava: ogni chilometro sembrava che stesse per tornare il sole, e di tanto in tanto uno spiraglio di cielo lasciava passare una luce più rassicurante.

Dentro la città, le case lasciavano spazio a veri palazzi, e al palazzo del governo e a quello della polizia, molto più grandi di quanto potesse immaginare; poi lo stadio.

La corriera si arrestò davanti allo stadio. La pioggia era quasi finita, e dal mare, che si trovava a due o tre strade di distanza, provenivano degli sbuffi che sapevano di sale. Nsue, era elettrizzato, era avvolto dall’odore e dal rumore dell’oceano, e li riconosceva pur senza mai averli sentiti prima: sarebbe scappato verso la spiaggia, senza neanche aspettare lo zio.

Invece Akuete si fermò prima a comprare i biglietti per il ritorno della sera, e a raccomandare all’autista di trattare bene gli otto anziani di Machinda; poi, trascinato da Nsue, accettò di farsi accompagnare verso la riva.

La pioggia non era più che qualche goccia sparsa, mentre il cielo ricominciava ad aprirsi, prima sull’orizzonte e poi sulla costa. Akuete si lasciava guidare dal nipote, attirato dal suono del vento che sfregava l’oceano. Dalla strada emergeva la linea ancora grigiastra dell’acqua, e fu quello il momento in cui Nsue cominciò a gridare, indicare, e strattonare, come se fosse lui l’esperto, e non lo zio.

Arrivarono alla riva proprio davanti all’Hotel Panafrica, dove la vista è la migliore di tutta Bata; il bambino era come assorbito dalla presenza di tutta quell’acqua: come nei racconti più incredibili dello zio, e si perdeva nel disegno delle onde, che cambiavano forma, che si avvicinavano come per assalirlo, e che all’ultimo momento si spegnevano sulla sabbia; perso nell’orizzonte, così piatto e diverso dall’orizzonte verde scuro e spigoloso del villaggio. Questo era blu, fluido, e a momenti sembrava infinitamente lontano, e un attimo dopo si avvicinava con la velocità delle onde più alte.

I colori cambiavano ogni istante, i raggi di sole che cominciavano ad uscire dalle ultime nuvole impertinenti aprivano il blu, il verde, l’azzurro, che trasformavano l’oceano ancora a tratti scuro in quel cielo coricato dei tanti racconti ascoltati al villaggio. Le onde si schiantavano sulla banchina davanti al Panafrica, mandando schizzi di schiuma e sale sui gabbiani e su Nsue; e lui toccava l’acqua leggera impigliata tra i capelli, l’assaggiava, e la trovava buonissima, ma poi storceva la bocca.

Akuete si godeva anche lui la vista del mare e del nipote, e il suo silenzio soddisfatto voleva far credere che tutto quello fosse quasi una sua creazione, un regalo speciale tutto per lui.

Dopo alcuni minuti di quella contemplazione, Akuete richiamò il bambino che era come incantato, e con lui seguì la costa verso nord, fino al piccolo porto dove avrebbero trovato suo fratello Mitoha. Purtroppo quello non era giorno di pesca ma di posta, così per tutto il pomeriggio i tre non fecero altro che attraversare a piedi la città da un lato all’altro, per consegnare pacchi e lettere a gente con nomi stranieri e uffici con guardiani insolenti: ne ricavarono molto fango sulle scarpe e nessuna mancia decente.

Ma per Nsue i momenti più belli erano quelli in cui dalla costa si rientrava verso le vie interne, dove il mare non si vedeva ma se ne ascoltava la voce; e come in un gioco a chi si nasconde meglio, ad ogni ritorno verso l’oceano scoppiava in un grido di sorpresa e di vittoria.

Al ritorno al villaggio Nsue aveva una certezza: tra tutti i bambini del suo villaggio l’aveva trovato per primo lui, il mare.

Categorie
Fotografica Racconti

Ho controllato tutto

Ho controllato tutto, ho preso tutti i documenti, e soprattutto le chiavi; le ho controllate almeno tre volte: spero solo che aprano ancora. Quella grande era mezza arrugginita, per pulirla ci ho messo mezz’ora, forse ora ce la fa.

Da mangiare ho abbastanza, e comunque potrò sempre trovare qualcosa nel ristorante vicino la chiesa. Chissà se esiste ancora la taverna di Ann Bridley, la zia di Almond; chissà ormai quanti anni avrà… Almeno settanta, neanche mi riconoscerà. Forse dovrei portare le foto di mamma, magari di lei si ricorda ancora.

Porto anche due maglioni con il collo alto, non si sa mai; la sera c’è sempre troppo freddo, e se il vento che viene da Sheppey è ancora lo stesso dopo quarant’anni, meglio essere preparati! E speriamo che le stelle si vedano ancora! E come mi piacerebbe ritrovare lo stagno di Almond…

Non torno a Whitstable dall’estate del ‘69, dal 28 agosto del ‘69. Da quando avevo nove anni. Come mi dispiaceva, quella mattina, partire! Per soli due giorni non avrei potuto festeggiare i miei dieci anni con Almond, un vera sciagura. Avevamo preparato la festa per tanto tempo, io e lui; e papà sul più bello ci dice di partire: Londra!

E tutti a Londra per quarant’anni…

In tutto questo tempo non ho avuto il coraggio di tornare a Whitstable, che stupido!

I primi tempi non osavo, perché ero diventato un vero londinese, e i veri londinesi non vanno in campagna se non con la governante. Mentre io non avevo nessuno, a parte la mamma, Melissa e Sylvie. Ma le mie sorelle erano troppo grandi per occuparsi volentieri di me, e troppo piccole per portarmi indietro allo stagno di Almond. E la mamma, o lavorava fuori casa, o cuciva fino a notte, e la domenica la passava sempre con papà a cercare una casa meno cara della nostra.

Dopo i primi anni, avevo quasi dimenticato la vecchia casa, e forse era meglio così: se solo avessi scoperto che sul mio letto ora dormiva un marinaio che puzzava di alghe secche e rhum, credo che sarei diventato furioso. Nella stanza delle sorelle, adesso vivevano i suoi tre compagni, che si davano i turni sulle barche. E il salone e la camera di mamma e papà, che erano le uniche stanze più grandi, le avevano trasformate in deposito di reti e carta e cartoni vecchi, fino al tetto. Povera la mia stanza!

Poi il lavoro, al giornale, in banca, e in quegli anni non potevo certo lasciare Londra e tornare nel mio piccolo paese nel Kent. Mentre tutti i miei colleghi venivano dal nord, e non potevano capire la vista del mare blu e dei gabbiani.

Alcuni gabbiani quasi ci riconoscevano, perché io e Almond ogni giorno alla stessa ora sedevamo vicino alla riva, e aspettavamo il rientro delle barche. Aspettavamo fino a quando la mamma di Almond, che era più piccolo di me, non lo chiamava per la cena. Ed io restavo solo, tra il prato e la banchina, fino quasi all’ora in cui papà tornava da Londra, a volte così tardi che tutte le stelle erano già alte davanti al porto.

Lavorare, quanto lavorava papà? E quanto ho lavorato io, prima di avere il tempo per tornare alla mia prima casa, come se per tutti questi anni non avessi lavorato che per ottenere il permesso di riprendermela.

E’ stata Londra che ci ha rapiti, e Londra che finalmente mi ha liberato. E adesso posso tornare a casa.

Ho preparato tutto: le chiavi finalmente sono pronte, e anche la casa è pronta. Ora ho il coraggio di tornare, anche per pochi giorni. Ora saprò restare, ritrovare lo stagno, la chiesa; e chiederò ad Ann Bridley di suo nipote.

E chissà se quei gabbiani mi riconosceranno ancora, stasera, sulla banchina.

Categorie
Fotografica Racconti

Dietro lo specchio

“Dietro lo specchio grande del bagno, due; sul bordo della Jacuzzi, tre; sulla mensola blu lunga, due. Ah, già, e sul mobile basso, ancora due. Fanno otto… no, nove. Appunto. Avevo ragione io…”

Così la bella Matilde si convinceva di avere ragione. Contava i suoi flaconi di shampoo, e con tono vittorioso annunciava a se stessa che erano meno di dieci. Lei lo sapeva già, era inutile contarli, e poi gliel’aveva detto cento volte, a quell’uomo irriducibilmente razionale ed esagerato, e sporco, soprattutto sporco, del suo ex marito. Era un’accusa detta apposta per spiazzarlo.

E infatti lui, nei momenti più accesi dei litigi che non finivano mai, non sapendo più come ribattere, le gridava che lei era una maniaca della pulizia, del profumo, e persino della chimica, bastava contare le bottiglie di shampoo disseminate nel bagno, almeno dieci o quindici ! E chi poteva sapere se non ne aveva nascoste altre, in cucina, o in camera da letto!

Nove. Avrebbe dovuto contarle lui, prima di accusarmi per niente…

Solo che ormai lui era andato via. E lei non era mai riuscita a capire perché. Lei pensava, non certo per quello. Ma allora, per cosa?

E intanto, tornava a fare la conta dei suoi flaconi, come se volesse dare a loro la colpa della sua separazione. Ma poi, come per scusarsi con loro, ci ripensava. In fondo, diceva, perché non potrei averne dieci, o anche venti? Vorrà dire che dureranno di più.

Allora, come se un sospetto che non aveva calcolato stesse prendendo forma, cercava di ricordare quando li aveva comprati. Tanto tempo fa. Almeno tre o quattro anni. Alcuni, poi molto tempo prima. Poi controllava se l’uno o l’altro stessero finendo. E li ricontava, ancora una volta, aprendo e chiudendo i tappi rotondi o rettangolari, e ogni volta premendo bene, come su una spugna, per sentirne l’aroma.

Nella casa di Matilde non c’era un buon odore. Tutte quelle bottigliette, mescolando i profumi, creavano un’atmosfera calda, zuccherosa, malsana. Neanche le mosche entravano più, soffocate da vapori esotici e sentori di essenze quasi alcoliche, che si confondevano e separavano nelle varie stanze, a seconda delle leggeri correnti d’aria che raramente Matilde faceva passare.

Perché l’aveva lasciata? Seduta in bagno, vicino alla finestra sempre chiusa, Matilde contò ancora le sue bottiglie, come ogni giorno, per la quindicesima o ventesima volta. E non aveva ancora capito perché lui se ne fosse andato.

“L’avevo detto, io, neanche dieci.”

Categorie
Fotografica Racconti

A Laurent non era mai piaciuta la mattina

A Laurent non era mai piaciuta la mattina, e non gli era mai piaciuto andare a scuola. Almeno negli ultimi tre anni. E lui andava a scuola esattamente da tre anni.

Le cose più importanti della sua vita avvenivano di pomeriggio o di sera, e visto che la scuola restava ostinatamente un’attività della mattina, non c’era modo di fargliela piacere.

A dire il vero, un periodo eccellente c’era stato. Erano i primi giorni del primo anno, quando non conosceva nessuno e nessuno gli parlava volentieri, e così era libero di stare in silenzio, pensare ai suoi giochi, a Mireille, poi di nuovo ai suoi giochi, e soprattutto non doveva dare alle maestre opinioni su fatti e luoghi che non avevano per lui nessuna importanza.

Invece, dopo neanche una settimana, una maestra importuna cominciava già ad obbligarlo a scrivere su un quaderno una quantità di lettere, numeri, forme e colori, anche loro di nessuna importanza. Le sole cose che gli importassero erano due: i giochi, e Mireille.

I giochi lo occupavano buona parte delle sue giornate più piacevoli, mentre Mireille non la vedeva che una volta alla settimana, il giovedì sera, a cena. E forse era proprio per questo che i giovedì sera d’inverno con Mirelle, anche se brevi, anche se in compagnia di mamma, papà, e dei signori Simon, valevano molto più di tutte le ore passate a fare scontrare tra di loro macchinine di ferro, animali di pezza e soldatini di piombo.

A quelle cene, infatti, tutta la sua energia battagliera si ritirava, e lo lasciava così, scoperto, con gli occhi fissi a Mireille. E non sapeva se doveva mangiare o guardare lei, perché la mamma e la signora Simon, alternativamente, ordinavano “mangia!”, ma Mireille, silenziosamente, suggeriva “guardami”…

Una volta tornato a casa, in quei pochi minuti che gli rimanevano prima di essere messo a dormire, i giochi di Laurent cambiavano: gli animali di pezza si abbracciavano, e i soldatini di piombo salivano in silenzio sulle macchinine e si allontanavano con discrezione.

Poteva essere il momento più bello; ma ogni giovedì notte Laurent incominciava a pensare alle sette maestre e alle sette mattine che lo separavano da Mireille, e l’indomani si svegliava già arrabbiato.

Categorie
Fotografica Racconti

Il giorno di Pasqua del 1967

Il giorno di Pasqua del 1967, il giovane Hubert come ogni anno accompagnò la sua fidanzata Greta a prendere la comunione nella chiesa del paese.

La chiesa era molto semplice, il paese molto calmo. Sia l’una che l’altro erano piccoli, quanto bastava a una popolazione stabile di poco più di 200 persone, almeno da un secolo.

La messa di Pasqua era una tradizione per Hubert e Greta, in quanto loro, nel resto dell’anno, non partecipavano a nessuna altra funzione, neanche a quella di Natale; così, una mattina all’anno, raccoglievano tutta la loro fede, la buona volontà e anche una certa quantità di civetteria, si vestivano con i loro abiti più appariscenti, e insieme varcavano il portone consumato della chiesa.

Dovevano essere visti da tutti, ottenere sguardi di approvazione che certificassero la loro religiosità e la loro virtù, e solo così, forse, un giorno i loro genitori, consultandosi con i vecchi del paese, avrebbero acconsentito alle nozze.

Oogni anno, le donne più anziane, che passavano più tempo nella chiesa che a casa loro, si chiedevano dubbiose se a Greta, per ottenere la salvezza eterna, fosse sufficiente farsi notare così raramente dal bel Gesù; e insinuavano che col suo vestito più bello lei tentasse di impressionare il Salvatore, e magari farsi perdonare qualche peccato di troppo.

Hubert seguiva Greta di un passo, quanto bastava per guardare le sue forme mentre saliva i gradini, mentre aggiustava il vestito scomposto, e cercando di far presto trovava due posti liberi e vicino all’altare.

Erano quasi i primi ad entrare, volevano essere i primi a vedere la resurrezione: a loro era necessaria più che a tutti gli altri.

Come ogni Pasqua, finita la messa, con quel senso di purezza ancora fresco, Hubert e Greta corsero via raggianti, lontano dal paese, dopo il ruscello, dietro le colline, e si coricarono sull’erba.

A sera, la scorta di purezza di un anno era già finita.

Categorie
Fotografica Racconti

Lei era semplicemente una bambina

Lei era semplicemente una bambina, e lo sapeva. Sapeva che le era vietato di allontanarsi da casa anche un minuto, anche solo per avvicinarsi al pesco al di là del ruscello e giocare con le sue foglie lunghe e ruvide.

E invece avrebbe voluto, in quelle mattine vuote di luglio, andare da sola almeno fino al negozio di papà, due strade più avanti. Non era lontano: persino coi suoi passi timidi, in un attimo sarebbe spuntata davanti al bancone, all’entrata, dove i contadini ogni mattina passavano, chiedevano informazioni, pagavano e si affrettavano alle corriere. Avrebbe salutato papà, e sarebbe tornata di corsa.

Come le piaceva, nel negozio, il movimento colorato e vociante; com’era diverso dalla stupida penombra di casa! L’oscurità molesta della cucina, con la tendina della finestra ormai annerita; e l’oscurità povera della stanza grande, che era troppo vuota di giorno, quando i quattro lettini di paglia erano arrotolati vicino alla porta; e quando sul pavimento non restava che il tavolo dal legno così scuro che sembrava volesse assorbire tutta la luce che entrava della porta.

Voleva tanto uscire, ma sapeva che avrebbe potuto perdere la strada, o essere vista dalla zia Thùi, così gentile quando c’era la mamma, e così antipatica quando la vedeva correre da sola; o peggio, sarebbe potuta cadere nel torrente, e sporcarsi la faccia: come l’avrebbe nascosto, allora?

Ma il clacson della corriera che arrivava oggi aveva suonato ben tre volte, e quel suono veloce l’attirava come se la stesse chiamando, furtivamente, per nome.

Allora Mihn guardò davanti, dietro la casa, si assicurò di non essere scoperta né dalla mamma né dalla zia. Nessuno. Attraversò in due salti il torrente, poi la strada, poi la seconda strada, e arrivò in un lampo accanto alla porta del negozio.

Si stava preparando a mostrare a papà lo sguardo furbo che aveva quando finalmente riusciva a raggiungerlo, e già si immaginava la sua sorpresa; mentre riprendeva fiato e aspettava il momento migliore per entrare, trionfante, si mise ad ascoltare come sempre le voci confuse dei grandi; tra quelle dei soliti sconosciuti del negozio, una sola le sembrò più chiara: “Mia figlia Mihn, lei è prudente; non uscirebbe mai da sola, vero, Thùi?”

Categorie
Fotografica Racconti

Nonostante il suo nome


Nonostante il suo nome, i capelli biondi, l’aspetto più gelido delle sere taglienti di novembre, e ancora il cappotto e il cappello ex-sovietici, Olga non era di origine Russa.

Veniva da Tushig, dieci chilometri in qua del confine. Tra le montagne più inospitali, tra i fiumi senza nome, dimenticati e tortuosi. Se veramente volevi raggiungere la Russia su una vera strada, la più breve era di 150 chilometri. Olga non era Russa.

Ci teneva a farlo notare. Però, le piaceva, ogni tanto, quando un ragazzo che si credeva più esperto cominciava a chiederle di lei e della sua famiglia, rispondere un po’ sì e un po’ no, lasciare il dubbio in mezzo alle parole e agli sguardi. E si nascondeva gli occhi sotto il cappello, non li giudicava abbastanza chiari, non le avrebbero creduto.

Aveva provato, una volta, a inseguire il confine, per dire a se stessa che in fondo, qualcosa di russo le l’aveva avuto, almeno per un giorno. Ma il confine si nascondeva, si allontanava e nessuno sapeva dov’era veramente; più lei saliva, faticosamente tra l’erba sempre meno folta, più la Russia sembrava irraggiungibile.

E poi, tra le pietre, i confini non si vedono…

Su un masso quadrato, era seduto, stanco per la lunga camminata, un giovane: fumava una sigaretta piegata e mezza consumata. Il fumo del tabacco, vagamente blu, si mescolava con la nebbia ferma delle alture.

Tavka, il giovane, nonostante il nome, i capelli, l’aspetto il cappotto e il cappello, non era di origine Selenge.